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martedì 23 Aprile 2024
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Con Roberto Latini, sulla scena la trasposizione  di “In exitu” di Testori

Secondo Proust i bei libri è come se fossero scritti in una lingua straniera, in modo da dare la possibilità ad ogni lettore di apporre il proprio senso ad ogni parola. Lo stesso vale per l’attore che ha il compito di  tradurre da un’altra lingua nella propria.

A Roberto Latini è toccato  mettere a nudo tutta la sua furente creatività per la trasposizione di “In exitu”, opera di Testori del 1988. Sul palcoscenico del Teatro Kismet, la confacente musica irrompe quando ancora è buio, poi una luce calda illumina la scenografia: le tende bianche che rivestono lo sfondo, mosse dal vento, metafora di quella tempesta dell’anima che da lì a poco sarà pronta ad entrare in scena. Dei materassi ricoprono il palco, un binario attraversa il proscenio, mentre una rete da tennis delimita il confine con la platea.
Latini fa il suo ingresso, ha in mano l’asta di un microfono che utilizza come stampella, indossa una maglietta, le mutande e un pantalone tenuto in mano, scarpe da tennis e un laccio emostatico  attorno al braccio. La  sagoma scura è proiettata dall’effetto luce,  sui teli bianchi, quasi a simboleggiare un uomo divenuto ormai l’ombra di se stesso. A questo punto il pubblico viene travolto dal flusso frenetico e coinvolgente dell’attore, in un monologo incessante, di parole strazianti e lacerate che caratterizzano il testo “In exitu“ di Giovanni Testori, opera ancor oggi considerata tra le più interessanti della nostra letteratura per la lirica travolgente, per la  complessa costruzione, in un incastro di italiano, dialetto milanese e latino.
Protagonista è Riboldi Gino, un giovane tossicodipendente che si prostituisce a Milano, tra i Navigli e la stazione, in una città in cui la nebbia diviene luce, dipingendola come una metropoli umiliata, abbandonata, assediata. Per Gino sembra non esserci speranza: si buca e si concede in un bagno pubblico per trentamila lire, necessari per comprare la “dose quotidiana”. La sua voce urla il  dolore di un’esistenza debilitante che si esplicita  attraverso un racconto frammentario fatto di ricordi, visioni, allucinazioni e deliri. L’abbandono, la violenza, la paura, le siringhe e la droga si mescolano ai ricordi dell’infanzia: la maestra delle elementari, la gita al museo, i  sensi di colpa, le invocazioni a Dio come anche la richiesta di perdono da parte dei suoi genitori.
La via crucis presente nel romanzo testoriano viene qui trasformata in una sorta di “partita a tennis”,  una lotta incessante che vede il protagonista in perenne movimento, da una parte all’altra della scena, in un conflitto che lo consacrerà perdente, fino ad arrivare all’ultimo racconto: il suicidio nella stazione.
Il talentuoso Roberto Latini è riuscito a coinvolgere lo spettatore, trasportandolo a fianco del protagonista in una full immersion martellante, in un racconto capace di  sviscerare tutta la violenta drammaticità che ha caratterizzato, negli anni 80 la lotta dei tossici in una società spesso sorda e insensibile alle loro  urla di dolore.

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