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Dalla primavera all’autunno, meteo “pazzo” in Puglia e Basilicata tra pioggia e siccità

L’inquinamento atmosferico non ha conseguenze solo sulla qualità della vita delle persone, influisce anche sui cambiamenti climatici e sulla qualità delle colture prodotte, specie se nelle campagne restano irrisolti antichi problemi, come quello della siccità.

Il ritorno dell’inverno con la neve che ha fatto la sua comparsa in alcune zone della Basilicata – imbiancando il Sacro Monte a Viggiano, il Sirino e facendo precipitare le temperature di quasi 20 gradi rispetto allo scorso week end – non sembra in grado di risolvere l’allarme lanciato, qualche giorno fa, dalla Cia Agricoltori Puglia: «La siccità sta ‘bruciando’ la nostra agricoltura», hanno sottolineato i vertici dell’associazione di categoria, evidenziando come a risentire di più del periodo siccitoso più lungo degli ultimi anni sono soprattutto le colture cerealicole, con danni evidenti nelle province di Foggia e della Bat, nell’area metropolitana di Bari, «ma gli effetti sono drammatici anche nei territori del Brindisino, in provincia di Taranto e in tutto il Salento».

Sul tema il presidente Gennaro Sicolo sottolinea come «La Puglia sia una regione a elevato rischio di desertificazione del territorio si dice da molti anni, eppure su questo problema epocale non sembra ci sia ancora la piena e totale consapevolezza necessaria a prendere provvedimenti non emergenziali ma strutturali». Per il presidente regionale di Cia Agricoltori serve «un preciso programma pluriennale d’interventi che riguardi il massiccio potenziamento delle infrastrutture per il riuso delle acque reflue e la possibilità di sfruttare anche sul nostro territorio i dissalatori, come si fa in tante altre parti del mondo».

Intanto, sul tema dell’inquinamento atmosferico emerge una dato significativo, sottolineato da una recente ricerca di Openpolis, elaborata dallo studio dei dati forniti dal world inequality lab, laboratorio di ricerca che studia le disuguaglianze nel mondo e che, in pratica, sostiene: le differenze di emissioni sussistono non solo tra diversi Paesi ma anche tra diverse classi sociali. Così, per esempio, in Europa il 10 per cento più ricco della popolazione causa 5,7 volte le emissioni del 50 per cento meno abbiente.

E in Italia? «Le emissioni della fascia più ricca della popolazione in Italia sono progressivamente aumentate tra gli anni ’80 e ’90 fino a toccare un picco nei primi anni 2000, quando hanno raggiunto le 33,7 tonnellate di Co2 equivalente (nel 2004). Poi sono tornate a scendere, rimanendo relativamente stabili tra 2015 e 2019, tra le 23 e le 24 tonnellate pro capite», si legge nella ricerca di Openpolis che fotografa la cosiddetta “impronta carbonica”, ovvero la quantità di tonnellate di Co2 equivalente pro capite, in un anno.

Le persone più facoltose contribuiscono maggiormente all’inquinamento per il loro stili di vita, «caratterizzato da più comodità e lussi e quindi causa di maggiori emissioni», ma anche per gli investimenti che le persone più ricche fanno nelle industrie inquinanti e il loro interesse a mantenere lo statu quo economico che finisce per riverberarsi sulle scelte politiche e sull’informazione.

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