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«Tap, 4 anni per il raddoppio». Ma ci si può fidare di Baku?

Ci sono due orizzonti temporali su cui andrà delineato il futuro del Tap: a breve termine il raggiungimento della piena capacità di trasporto da dieci miliardi di metri cubi l’anno (oggi viaggia all’80%); nel lungo la possibilità di raddoppio. La crisi ucraina sta accelerando i piani di politica energetica dell’Unione Europea e dell’Italia.

Mario Draghi ieri, durante il discorso al Senato, ha sottolineato la strategicità della pipeline che porta in Europa il gas dell’Azerbaigian. Parlare di raddoppio, dunque, è un tema quanto mai attuale. Servirà però del tempo e attenuerà solo in piccolissima parte la dipendenza energetica del vecchio continente dalla Russia. «Noi ci occupiamo dell’infrastruttura – spiega Luca Schieppati, amministratore delegato di Tap -. È necessario che ci sia un interesse vincolante del mercato. Una volta sottoscritti i contratti di trasporto allora sarà possibile procedere con l’espansione. È importante che si sappia che passare da 10 a 20 miliardi di metri cubi l’anno non comporta interventi infrastrutturali sulla tubazione. Dovremo soltanto potenziare la compressione in Albania e in Grecia».
È già in corso il market test, solitamente della durata di due anni, necessari per il raddoppio sulla base dal regolamento 2017/459 della Commissione Ue. «Tap ha messo a disposizione del mercato la possibilità di accelerare i tempi dell’attuale market test – afferma l’ad Luca Schieppati – anticipandone la fase vincolante dal luglio 2023 a luglio 2022, per aumentare la flessibilità commerciale offerta al mercato». Restano i tempi medio-lunghi. «Per quanto si possa velocizzare l’iter – conclude Schieppati – serviranno circa 5 anni per passare da dieci a venti miliardi di metri cubi di gas».
L’aumento di importazione dall’Azerbaigian contribuirebbe solo in piccola parte a ridimensionare la dipendenza da quello russo. Mosca è la prima fornitrice di gas dell’Europa, con il 46% del totale importato, circa 180 mila metri cubi all’anno. Al secondo posto c’è il Mare del Nord (17%) e solo in coda Algeria, Libia e, appunto, ll’Azerbajian. La volontà di raddoppio dell’Europa era chiara già prima che scoppiasse la guerra in Ucraina.
Lo scorso quattro febbraio a Baku si è tenuto l’ottavo consiglio consultivo del corridoio Sud al quale hanno preso parte i paesi interessati dalla pipeline, Italia compresa. In quella occasione la sottosegretaria alla transizione ecologica, Vannia Gava, aveva parlato di una infrastruttura strategica, «un’ancora di stabilità che ha permesso di ridurre del 10% l’aumento dei costi del gas». la Commissaria Ue all’Energia, Kadri Simson, in quella stessa occasione, ribadì il ruolo del gas naturale e di Tap nel garantire la sicurezza degli approvvigionamenti, nell’ottica di una progressiva decarbonizzazione dell’energia e dell’industria europea. Sono ancora le condizioni geopolitiche, però, a condizionare le scelte. Diciotto giorni dopo l’incontro di Baku, il presidente dell’ Azerbaigian, Ilham Aliyev, ha sottoscritto con Vladimir Putin un trattato bilaterale di 43 punti che fa del paese azero tra i più vicini alleati della Russia. Un patto di collaborazione economica e di cooperazione che mette nero su bianco un rapporto privilegiato dopo le “incomprensioni” degli ultimi anni che avevano spinto il paese a lasciare il Csto (l’alleanza militare che fa capo alla Russia) e ad avvicinarsi alla Turchia. Se da una parte, dunque, l’Europa guarda all’Azerbaigian per dipendere meno dal gas russo, dall’altra il paese azero ricorda al mondo qual è la sua collocazione politica. In una condizione, in ogni caso, di subalternità rispetto all’alleato russo che, quando vorrà, potrà far valere la sua influenza. Anche chiudendo il rubinetto di Baku.

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