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sabato 7 Settembre 2024
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Amii Stewart si racconta in occasione del live a Mola di Bari: «La disco music? Mi sta stretta» – L’INTERVISTA

Sorridente. Così Amii Stewart si è presentata all’arena del Castello di Mola di Bari, dove domenica sera si è esibita per l’Agimus Festival, accompagnata dall’orchestra “Ico Suoni del Sud”. Un’artista pazzesca Amii from Washington. Dalla danza classica ai primi passi in Inghilterra, lontana da casa, dalla fama planetaria con “Knock on Wood” al rigetto per la disco music, abbiamo insieme ripercorso la sua carriera.

Qual è la prima immagine che ti viene in mente se ripensi alla tua carriera?

«Gli anni ’70, quando ho firmato il mio primo contratto discografico. Da quel momento ho vissuto un impatto diverso con la musica».

Un passo indietro, siamo a Londra, la prima esperienza fuori dagli States.

«Semplicemente meravigliosa. Facevo parte di un musical, siamo partiti da Broadway, New York, per arrivare al West End londinese. Era la prima volta per me lontana dalla mia famiglia, mi sentivo adulta, indipendente. Ero felice, avevo un cachet altissimo, dovevo stare fuori solo sei mesi, alla fine furono quasi tre anni. Lì conobbi Barry Lang, il produttore di “Knock on Wood”».

E con “Knock on Wood” arriva il successo internazionale. Sono quelli per te gli anni fondamentali, o pensi sia stato tutto il lavoro prima a fare la differenza?

«Lo studio è stato fondamentale. Senza quello che ho imparato frequentando la Scuola delle Belle Arti, senza la disciplina che mi ha insegnato fare la ballerina per diciassette anni, non sarei arrivata dove sono. La danza classica mi ha dato la base per fare tutto il resto, mi ha insegnato ad essere molto seria nel mio approccio a questo lavoro. Non ho mai preso nulla sotto gamba nel mio percorso, sono sempre molto severa con me stessa».

Vuoi dire che lo studio viene prima del talento?

«Assolutamente».

Sei stata nel famoso nightclub newyorkese “Studio 54”, su cui si sprecano leggende metropolitane. Com’era?

«Era follia. Questa è l’unica parola che mi viene da usare. Pura follia. Un luogo senza pregiudizi o regole, persone di tutte le etnie e di ogni orientamento sessuale, vestiti nella maniera più assurda: tutti insieme solo per ballare e divertirci. Luci, colori, musica, gioia e anche droga, che per fortuna non ha mai fatto parte della mia indole. Non mi è mai piaciuto perdere il controllo».

C’è un episodio in particolare che ricordi?

«La prima volta che sono stata lì “Knock on Wood” era ai vertici. Il locale era stracolmo, non puoi nemmeno immaginare quante persone c’erano. Non riuscivo neanche a vedere il pavimento. Il dj ha annunciato il mio nome, mi hanno presa, sollevata e portata sul palco. È stato incredibile».

Hai avuto problemi agli inizi della tua carriera per il colore della tua pelle?

«Non ho mai vissuto questo problema nell’arte. Per fortuna, nell’ambito musicale, il discorso del razzismo quasi sparisce».

E nella tua vita quotidiana?

«Certo. Sono nata a Washington, l’America era un posto molto razzista negli anni ’60».

Credi sia qualcosa di ancora attuale il razzismo?

«Molto attuale. Sai come si dice, “la mamma del cretino è sempre incinta”. Purtroppo ci sono ancora tante persone ignoranti».
Dopo il crollo della disco dance hai dovuto reinventarti. Come hai approcciato a questo rinnovamento artistico?
«Per me è stata una gioia. Non mi sono mai considerata una cantante “disco”. Sono nata in teatro, avevo voglia di cantare musica seria (ride ndr). Iniziai a fare dei passi per cambiare stile già prima del crollo della disco music. Però le case discografiche guadagnavano talmente tanto con me quel periodo che ostacolavano questa transizione. Arrivò un momento in cui per ritrovarmi dovetti allontanarmi dalla scena musicale per quasi tre anni. Fu una grande lezione. Furono ancora le mie basi solide a farmi superare questo momento».

C’è qualche passaggio della tua carriera che non rifaresti?

«Ci sono stati momenti in cui avrei potuto seminare un po’ più nelle amicizie. Ma ero molto timida, non sapevo bene come. Tendevo sempre a stare al mio posto, a chiudermi in me stessa. In tanti avrebbero voluto avere rapporti e collaborazioni musicali ma ero così introversa da non captare questo desiderio nei miei confronti. Forse è stata l’insicurezza della gioventù a frenarmi».

Eppure mi sembri una donna molto aperta…

«Adesso sì (sorride ndr). Ma ci è voluto un grande lavoro».

Chi è Amy Stewart oggi?

«Non lo so, devi dirmelo tu (ride ndr). Sono una donna libera. Mi sento in una fase della vita in cui posso scegliere, posso andare dove voglio, posso fare tutto».

Cosa ti restituisce questa libertà?

«Un grande senso di gioia e leggerezza. Una incredibile apertura che mi permette di aiutare gli altri».

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