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domenica 6 Ottobre 2024
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Il debutto dello scrittore barese Carrieri: «L’amicizia e il senso di colpai cardini di “Poveri a noi”» – L’INTERVISTA

Ha come modelli Milo De Angelis e Gaetano Cappelli. Basterebbe questo per un ritratto a mano libera di Elvio Carrieri, scrittore giovanissimo – classe 2004 – barese, al debutto letterario con la casa editrice Ventanas. Fuori dal tempo. Eppure il suo libro d’esordio nel presente ci si rotola con gusto. Pagine contemporanee, ferocemente moderne, che strizzano l’occhio alle penne che furono. La sua di penna, mette Bari allo specchio, nuda.

Il tuo primo libro. Se dovessi raccontarlo, da dove partiresti?

«Dall’amicizia. E dal senso di colpa. Sono i due veri cardini di Poveri a noi, entrambi canalizzati nella città di Bari per formare due trame parallele: quella del senso di colpa privato, individuale, di un ragazzo che non ha protetto un amico; quella del senso di colpa pubblico, collettivo, di una città che ha distrutto se stessa».

Pagine scritte di notte, in una settimana, inviando poi ogni giorno all’alba una mail con un capitolo a Forlani. Raccontami

«Tento di scongiurare il mito della staffetta romantica – anche perché porta più danni che benefici – ma è proprio quanto accaduto. Non per una follia, per una folgorazione spontanea, bensì per una sfida, un tentativo di convertire in prosa una ricerca in versi che andava avanti da tempo. E tutto ciò è opera di Forlani. Io ho solo abboccato all’amo e scritto ogni notte una storia che valeva la pena di essere raccontata.

Trovo curiosa la scelta, per uno scrittore cosi giovane, di spalmare la storia su uno spazio temporale ampio, piuttosto che concentrata sul presente, sull’immediato. Come mai questa scelta?

«Narrare un senso di colpa lacerante implica raccontare una sedimentazione. Libero e Plinio si muovono nell’arco di vent’anni, da ragazzini fino alla soglia dei trenta, dove è il presente narrativo. Va da sé che il soliloquio perpetuo del Libero narratore non è altro che un tentativo di esorcizzare il ricordo, il tempo dove è viva l’immagine del suo amico Plinio sventrato sul terreno, e di lui che, da vigliacco, non interviene.

Stai girando molto con il tuo libro, hai appena finito un tour al nord Italia. Cosa ti ha lasciato questa esperienza?

«Sfiducia nei confronti dell’autopromozione, consapevolezza che è quanto di più lontano esista dalla letteratura. Se non altro una certa quiescenza, finalmente, di un ego adolescenziale che aveva bisogno di sentirsi parlare. Per fortuna siamo oltre. Il vero sogno è stato poter visitare le librerie indipendenti, parlare con i librai di tutta Italia, imparare da loro».

Il libro si apre con una citazione di De Angelis. Perché?

«Libero è professore di lettere in un carcere di massima sicurezza. L’unico modo per raccontare una realtà così complessa senza mancarle di rispetto era passare per un uomo che l’esperienza l’ha vissuta e raccontata. Non potevo avere modello migliore di Milo De Angelis per costruire la storia di Libero, che pure diverge dalla sua. È significativo che il secondo capitolo, Prfssò, inizi con un ribaltamento di una sua citazione. “Alcuni, quando ne parlo, mi dicono che il carcere è un luogo di vuoti e di pieni. E io non sono mai d’accordo”».

Ti sei chiaramente ispirato alla quotidianità della borghesia barese nel tuo libro. Perché l’esigenza di raccontarla?

«Perché è vergine, come la città. Da quando la Puglia è diventata oggetto di speculazione – sia turistica che narrativa – abbiamo smesso di sentirci provincia dell’impero, eppure rimaniamo privi di una vera e propria tradizione di letteratura “urbana”. In compenso assistiamo a un profluvio di racconti stereotipati che collaborano alla costruzione di un’immagine fasulla di questa terra tanto quanto i travel influencer. Il mio lavoro tenta di inserirsi sulla strada già battuta dai fratelli Piva e da Marcello Introna, e più in ampio da Gaetano Cappelli, quella cioè di poter fare letteratura raccontando la città linguisticamente senza scadere nel macchiettismo, e semmai – come nel caso di Cappelli – tendendo ancora a un’eleganza, a un certo dandysmo meridionale nei personaggi. Ma il mio racconto di questa borghesia talmente feroce, forse in parte dettato dall’esigenza di esorcizzare il fatto di esserci nato all’interno, deriva tutto dal rapporto che la stessa ha instaurato con i palazzi della propria città. Violento, distruttivo, predatorio, cinicamente antistorico».

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