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lunedì 16 Settembre 2024
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A Bari la mostra di Pietroiusti: «La città mi ha sorpreso. L’arte? Ti insegna a cambiare le regole» – L’INTERVISTA

Tremila fogli bianchi, sottoposti all’azione continuativa di acqua salata, muffa e ruggine. Questo il concetto della mostra di Cesare Pietroiusti, artista romano, allievo di Sergio Lombardo. “Agenti patogeni e morfogenesi del disegno”, inaugurata a luglio a Bari, si è chiusa giovedì scorso. In tantissimi in fila nello Spazio Murat, per portare a casa una delle opere che l’artista ha regalato al pubblico. Un finissage che è stato un successo.

Il finissage della tua mostra ha attratto tantissimi visitatori…

«La cosa ha stupito anche me. Sono un artista con tanti anni di lavoro alle spalle, ma ho sempre avuto un pubblico di nicchia. Giovedì invece c’è stata grande partecipazione. Sono contento per Spazio Murat, è una realtà che merita. Bari mi ha riservato un abbraccio che mi ha sorpreso. Tutte le persone in fila al finissage mi hanno riempito di domande, anche chi non era esperto di arte contemporanea. È stato molto bello».

I più ipocondriaci erano spaventati dal fatto che il fungo utilizzato per i tuoi lavori fosse pericoloso.

«Vero. Ma l’aspergillus è un fungo innocuo, cresce anche a casa, sul pane lasciato qualche giorno in una busta di plastica. Inoltre ho spruzzato un fissativo sulle opere, quindi il processo di proliferazione è arrestato».

L’esposizione a Spazio Murat è la riproposizione di un lavoro realizzato parecchi anni fa a Venezia. Come nasce l’idea?

«È stato più di vent’anni fa, durante un evento collaterale della Biennale, alla fondazione Olivetti. Mi interfacciai con i restauratori dell’Accademia di Venezia, in particolare con chi si occupava dei documenti antichi. Catturò la mia attenzione scoprire quali agenti sono in grado di danneggiare i fogli di carta, macchiandoli. Pensai quindi di utilizzare gli agenti che il restauratore combatte, come la muffa e la ruggine, a scopo creativo. Era il 2005. Ho deciso di riproporlo, e ho trovato il risultato migliorato».

In cosa?

«Ho avuto lo Spazio Murat a disposizione per 2 mesi, a Venezia il tutto si svolse in una settimana. Il tempo è un elemento fondamentale. Questa finestra più ampia ha prodotto forme evidenti e varie, valorizzando il progetto. In questo modo la mostra stessa diventa un momento di creazione. Con il ferro però ho avuto qualche problema».

Raccontami

«Per questo esperimento mi sono sempre fatto dare la limatura di ferro dal fabbro, e così ho fatto questa volta. A luglio ho posizionato i fogli con il ferro nello Spazio Murat, ma nulla. I disegni non venivano fuori. Ho fatto altri tentativi, ma il risultato non arrivava. Ho scoperto solo dopo che quasi tutti i materiali di base per la lavorazione del ferro sono ormai trattati con il cromo. In altre parole inossidabili».

Ti ha fermato il progresso insomma?

«Paradossalmente si. Alla fine sono riuscito a ottenere le macchie di ruggine ordinando la povere di ferro su internet, da un fornitore di giochi con le calamite per bambini. Una polvere molto più sottile di quella che ho usato vent’anni fa, che mi ha regalato una sorprendete variabilità nel risultato. Nella difficoltà è venuto fuori un perfezionamento della tecnica».

La tua è un’arte di relazione. In questo caso ti affidi ad agenti esterni, non umani. È un cambio concettuale importante per te?

«Si e no. Considero la creazione un processo costante di appropriazione, di scambio. La relazione è la mia benzina. In questo caso, affidarsi all’alterità, come quella di una polvere o una muffa, è comunque un dialogo. In questo caso con agenti non umani, che sono pur sempre materia e vita».

Il materiale in questo caso si compie senza l’artista stesso. È un po’ a metà tra “controarte” e provocazione la tua?

«È una apertura alle possibilità. Sono uno sperimentatore spregiudicato».

Una dichiarazione di guerra alle regole dell’arte?

«La funzione dell’artista è quella di far comprendere all’umano che può giocare con le regole, non secondo esse. Cambiarle. Questa è l’arte, questo fanno le mostre con chi ha voglia di ascoltare».

Hai frequentato per anni l’artista Sergio Lombardo…

«È stato il mio maestro. Anche se negli ultimi anni ci siamo un po’ allontanati, sono molto contento del riconoscimento internazionale che ha ricevuto negli ultimi anni».

Che incontro è stato il vostro?

«Avevo diciannove anni, ci siamo conosciuti durante una riunione del Partito radicale. Iniziai a frequentarlo, entrando nel mondo dell’arte. Ti racconto un aneddoto: molti anni dopo, nel 2014, durante una conferenza al MAXXI in cui presentavo il mio lavoro, Lombardo era tra il pubblico e fu invitato a parlare. Disse: “Mi ricordo del primo incontro con Pietroiusti, era un giovane di buona famiglia che parlava in un italiano forbito. L’opposto dell’artista, insomma. In quel momento ho deciso che proprio lui sarebbe diventato la nuova figura dell’artista”. In breve ha detto “Cesare Pietroiusti è un mio lavoro”. Diabolico, Sergio è sempre stato di un’intelligenza micidiale (ride ndr). Ed è proprio vero, se non l’avessi conosciuto non credo avrei fatto l’artista. Mi diverte molto essere, alla fine, nient’altro che l’opera di un altro».

L’arte contemporanea in Italia è ancora indietro rispetto a quanto accade nel Nord Europa?

«C’è un’arretratezza di sistema, meno collezionisti, meno soldi. C’è minore attenzione alla formazione artistica di qualità. Manca nella grande maggioranza dei casi un corpo docenti all’altezza. Bisognerebbe superare gli steccati disciplinari, e chiamare a insegnare persone che lavorano nel campo. Salvo eccezioni, chi insegna nelle accademie sono artisti frustrati che trasmettono ai giovani artisti un senso di pessimismo. Questo è un peccato, tarpa le ali agli artisti di domani».

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