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sabato 5 Ottobre 2024
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Spopolamento, Chelli (Istat): «Italia giù di un milione di nascite, aumentano gli esodi all’estero»

Il presidente dell’Istat Francesco Maria Chelli, in occasione della 32esima edizione del Rapporto annuale sulla situazione del Paese ha fatto una panoramica dei diversi aspetti della vita sociale ed economica italiana misurati dall’Istat. Le informazioni contenute nel Rapporto, corredato da molte infografiche, consentono di individuare le tendenze in atto nel nostro Paese e di fare delle previsioni sul futuro.

Dal 2012 ad oggi la popolazione italiana è diminuita di oltre un milione di unità (-1,8 per cento). Il declino demografico ha riguardato le regioni del Mezzogiorno (-4,7 per cento) mentre il calo del Centro-Nord stato solo -0,3 per cento. Nello stesso decennio 2012 -2022 l’indice di vecchiaia (rapporto tra popolazione di 65 anni e più e di età tra 0 e 14 anni) è aumentato di ben 44,7 punti attestandosi a quota 193,1. In pratica il numero di quanti stanno per uscire dal mercato del lavoro è quasi doppio rispetto a quanti si accingono ad entrare, per cui è difficile garantire il ricambio generazionale.

Entro il 1° gennaio 2042, la popolazione residente in Italia potrebbe ridursi di circa 3 milioni di unità, ed entro il 1° gennaio 2072 potrebbe diminuire di oltre 8,6 milioni per cui è lecito parlare di un vero e proprio spopolamento.

Gli effetti di questi fenomeni sono ben noti e come gli esperti dicono da anni, per poter invertire questi fenomeni, servono interventi coraggiosi i cui effetti saranno visibili dopo almeno 20 anni, quindi ben oltre l’intervallo temporale considerato dai decisori politici che spesso hanno una visione di breve periodo, ovvero la prossima campagna elettorale.

Lo spopolamento non solo scoraggia gli investimenti sul futuro, ma incide sulla capacità di spesa e di investimenti delle famiglie. Le famiglie giovani hanno una maggiore propensione alla spesa ed agli investimenti rispetto alle famiglie meno giovani che concentrano le loro spese in ambito sanitario.

La questione demografica è nell’agenda politica: il contrasto ai fenomeni di declino e di marginalizzazione è, infatti, al centro della Strategia Nazionale delle Aree Interne (SNAI), volta a sostenere i territori fragili e soggetti più di altri a fenomeni di spopolamento. Mentre nei comuni che l’Istat classifica come Centro e dove si concentra il 75 per cento della popolazione nazionale si registra una crescita del 5,2 per cento, nella Aree Interne si ha un calo del pari a -1,6 per cento. I Comuni Periferici e Ultra periferici, dove nel 2022 risiede il 9,1 per cento della popolazione italiana, hanno subito una decrescita demografica accentuata (rispettivamente -4,9 e -9,4 per cento), mentre quelli Intermedi (meno distanti dai luoghi di offerta dei servizi essenziali) mostrano una crescita lieve di popolazione (+1,1 per cento). Si osserva, dunque, una tendenza all’abbandono delle Aree Interne (soprattutto di giovani), a favore dei territori più dotati di servizi. Le previsioni della popolazione a 20 anni confermano il processo di rapido spopolamento delle Aree Interne. Nel 2042, i Comuni Centro perderanno complessivamente il 3,6 per cento della popolazione (-5,3 per cento nei Poli intercomunali), mentre nelle Aree Interne il calo dovrebbe raggiungere il 9,3 per cento, in particolare nei Comuni Periferici e Ultra periferici (rispettivamente -11,8 e -13,7 per cento; -7,4 per cento nei Comuni Intermedi).

Secondo i dati al 1° gennaio 2023, nelle classi dei Comuni Periferici e Ultra periferici la popolazione anziana è più del doppio di quella giovane (218,3 e 236,1, rispettivamente). Una quota più contenuta si osserva nei Comuni di Cintura, dove più spesso vivono le famiglie con figli (177,7). Anche nei Comuni Polo, tuttavia, l’indice di vecchiaia supera 200.

Ma quali sono le cause alla base del progressivo spopolamento delle aree interne?

Le motivazioni di questo esodo che in altri Paesi ha raggiunto dimensioni davvero preoccupanti, sono da ricercarsi nei cambiamenti della struttura produttiva. Così come è già avvenuto nel passaggio dall’economia agricola a quella industriale, le grandi città hanno attirato un numero consistente di lavoratori, desiderosi di avere un lavoro meglio remunerato e stabile. La progressiva terziarizzazione della nostra economia ha progressivamente accentuato i divari fra i grandi centri urbani e piccoli comuni che spesso hanno una dotazione infrastrutturale inadeguata. L’accessibilità ai servizi web ed alle infrastrutture di trasporto condiziona fortemente le scelte delle famiglie, soprattutto quelle più giovani.

Un quinto della popolazione italiana, circa 12 milioni di abitanti, risiede in Comuni con accessibilità elevata ai servizi, mentre in quelli con accessibilità scarsa (per lo più di Aree Interne) abita il 2,2 per cento circa dei residenti. In media il 55,5 per cento dei Comuni – in cui risiede l’84,7 per cento della popolazione – dista al massimo 15 minuti dall’ospedale dotato di Pronto soccorso o Dipartimenti di emergenza di I o II livello più vicino, e Il 98,7 per cento della popolazione in Comuni distanti al massimo mezz’ora. Vi sono notevoli differenze sul territorio, associate all’urbanizzazione: dista al più 15 minuti da un ospedale il 75,5 per cento dei Comuni lombardi, contro il 14,5 per cento dei Comuni della Basilicata (93,4 e 41,6 per cento le quote di popolazione). Le famiglie con figli in formazione sanno bene quanto sia importante la prossimità a strutture in grado di garantire servizi scolastici di elevata qualità. La scuola italiana dispone di un consistente patrimonio edilizio (nel 2023 oltre 61.300 edifici). Come già nel 2018, poco più del 16 per cento degli edifici non risulta servito dal trasporto pubblico. L’accessibilità è però complessivamente migliorata per tutti gli altri: il trasporto locale consente di raggiungerne agevolmente (fermata entro 250 metri) il 58,9 per cento (dal 53,9 nel 2018); quello inter-urbano (fermata entro 500 metri) il 47,4 per cento (dal 43,1 nel 2018), e quello ferroviario (stazione entro 500 metri) il 10 per cento (9,3 per cento nel 2018). Anche per questi servizi vi è un gap a seconda delle ripartizioni territoriali considerate. La raggiungibilità degli edifici scolastici presenta svantaggi nel Mezzogiorno e nelle Aree Interne. Nel primo caso il trasporto pubblico locale ne raggiunge il 53,1 per cento, nel Centro-nord circa due su tre (63 per cento). Nelle Aree interne ultra-periferiche le criticità (33,6 per cento) superano i casi positivi (28,9 per cento).

I dati sopra riportati mettono in luce solo i fenomeni più macroscopici, poiché non servono analisi raffinate per capire che queste disparità territoriali sono destinate ad acuirsi, in assenza di serie politiche di intervento mirate a migliorare la qualità della vita delle aree interne. Ragionando in una logica di ecosistema sociale, sappiamo che esistono dei limiti naturali alla capacità di aggregazione dei grandi centri ma l’esperienza ci insegna che non governare questi processi, aspettando che le forze centrifughe annullino gli effetti di quelle centripete, ha un costo sociale ed economico troppo elevato.

Corrado Crocetta è presidente della Società Italiana di Statistica e professore ordinario di Statistica all’università degli Studi di Bari Aldo Moro, dipartimento DIRIUM

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