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sabato 19 Ottobre 2024
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Si salva solo il Nord-Est. L’industria pugliese arretra mentre è record in Basilicata

Tra il 2007 e il 2022, il valore aggiunto reale dell’industria del Mezzogiorno è crollato del 27 per cento. In questo contesto, fa un po’ meglio rispetto alla media la Puglia ma c’è ben poco da esultare: l’arretramento è stato del 19 per cento. Sono le imprese della Basilicata, invece, ad aver registrato la crescita del valore aggiunto dell’industria più importante (+35,1 per cento). Sono solo alcuni dei dati diffusi ieri dalla Cgia di Mestre e che fotografano la condizione industriale del Paese. Solo il Nord-est ha registrato un risultato positivo che ha toccato il +5,9 per cento. Risultato che secondo l’Ufficio studi della Cgia è in massima parte ascrivibile agli ottimi risultati conseguiti dal settore estrattivo, grazie alla presenza di Eni, Total e Shell nella Val d’Agri e nella Valle del Sauro.

In seconda posizione si colloca il Trentino Alto Adige (+15,9 per cento) che ha potuto contare sullo score del settore agroalimentare, della distribuzione di energia, delle acciaierie e delle imprese meccaniche. In terza posizione, invece, scorgiamo l’Emilia Romagna (+10,1 per cento) e appena fuori dal podio il Veneto (+3,1 per cento). Dal quinto posto in poi tutte le regioni italiane presentano una variazione di crescita del valore aggiunto negativa. Le situazioni più critiche si sono verificate in Calabria (-33,5 per cento), in Valle d’Aosta (-33,7 per cento), in Sicilia (-43,3 per cento) e in Sardegna (-52,4 per cento).

«Il comparto che nell’industria italiana ha subito la contrazione negativa del valore aggiunto più pesante in questi ultimi 15 anni è stato il coke e la raffinazione del petrolio (-38,3 per cento)», si legge nel report della Cgia di Mestre. Seguono il legno e la carta (-25,1 per cento), la chimica (-23,5 per cento), le apparecchiature elettriche (-23,2 per cento), l’energia elettrica/gas (-22,1 per cento), i mobili (-15,5 per cento) e la metallurgia (-12,5 per cento). Per contro, invece, i settori che esibiscono una variazione anticipata dal segno più sono i macchinari (+4,6 per cento), gli alimentari e bevande (+18,2 per cento) e i prodotti farmaceutici (+34,4 per cento). Tra tutte le divisioni, la maglia rosa è ad appannaggio dell’estrattivo che, sebbene possegga un valore aggiunto in termini assoluti relativamente contenuto, in 15 anni ha registrato un incremento spaventoso pari al 125 per cento.A livello provinciale Milano (con 28,2 miliardi di euro di valore aggiunto nominale nel 2021) rimane l’area più “manifatturiera” del Paese.

Secondo l’Istat, da un punto di vista strettamente statistico il Nordest è costituito dalle seguenti regioni: Trentino Alto Adige, Veneto, Friuli Venezia Giulia ed Emilia Romagna. Seguono Torino (15,6 miliardi), Brescia (13,5 miliardi), Roma (12,1 miliardi) e Bergamo (11,9 miliardi). Delle prime 10 province più industrializzate d’Italia, 7 si trovano lungo l’autostrada A4. Tra tutte le1 07 province monitorate, quella che tra il 2007 e il 2021 ha registrato la crescita del valore aggiunto industriale nominale più elevata è stata Trieste (+102,2 per cento). Subito dopo scorgiamo Bolzano (+55,1 per cento), Parma (54,7 per cento), Forlì-Cesena (+45 per cento) e Genova (+39,5 per cento). I territori, invece, dove le perdite di valore aggiunto sono state più importanti hanno interessato Sassari (-25,9 per cento), Oristano (-34,7 per cento), Cagliari (-36,1 per cento), Caltanissetta (-39 per cento) e Nuoro (-50,7 per cento). Per trovare una provincia pugliese bisogna scendere fino al ventiseiesimo posto dove c’è Bari.

Rispetto ai dati di un anno fa, il capoluogo ha perso quattro posizioni con un calo del valore aggiunto industriale dell’1,6 per cento. Spicca in positivo, invece, la provincia di Lecce, che non solo ha recuperato tre posizioni ma ha visto crescere la produzione del 14,2 per cento tra il 2007 e il 2021. «Ricordiamo – sottolineano i ricercatori della Cgia di Mestre – che dalla fine della seconda guerra mondiale a oggi, gli ultimi 15 sono stati gli anni più difficili per la gran parte dei Paesi occidentali. Per quanto concerne l’Italia, ad esempio, la grande recessione del 2008-2009, la crisi dei debiti sovrani del 2012-2013, la pandemia del 2020-2021 e l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia avvenuta nel 2022 hanno profondamente cambiato il volto della nostra economia», sottolinea l’istituto di ricerca. C’è un aspetto interessante, però, che semina un pizzico di ottimismo in un contesto tutt’altro che esaltante: tante imprese hanno chiuso in queste anni ma quelle che sono rimaste si sono rafforzate, mostrando particolare resilienza. «Questi dati – afferma il segretario della Cgia Renato Mason – dimostrano che c’è la necessità di mettere a punto una politica industriale di lungo periodo, deregolamentando, dove possibile, per non frenare la crescita e lo sviluppo, con una particolare attenzione al tema del credito. Le difficoltà di accesso ai prestiti bancari, infatti, stanno diventando un serio problema per tante Pmi».

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