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lunedì 26 Agosto 2024
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Durastanti presenta il suo ultimo libro in Puglia: «Il mio “Missitalia” una passeggiata nel buio» – L’INTERVISTA

Claudia Durastanti ne ha di vita da raccontare. Lo dice la profondità dello sguardo, lo capisci anche se un suo libro non l’hai mai letto. Sarà la tridimensionalità ingombrante delle sue parole, eredità di un’età senza ritorno che porta sulle spalle con aria sicura, giocattoli di un’altra epoca, sparsi uno per uno sul pavimento della stanza. Anche se non vuoi, finisci per inciamparci. L’incontro è nella lounge room di un hotel anni ’90 a Noci. Mezz’ora, ed un caffè consumato raccontando “Missitalia”, il suo ultimo libro, prima del reading per l’anteprima del festival “Chiostri e Inchiostri”. Stasera é l’ultima occasione per incontrarla in Puglia, nei Chiostri degli Agostiniani, a Lecce, alle 20.

Trovo che i tuoi romanzi tendano a togliere certezze. Come se finito il libro, ne iniziasse un altro nella testa del lettore…

«Ho un approccio alla scrittura che tende a raccogliere piccoli mondi, per poi ruotarli. Cerco di indagare i diversi riflessi di luce sullo stesso tema, tendo a lavorare su un disorientamento di coordinate spazio-temporali. È come se ogni nuovo romanzo cercasse di risolvere quei problemi irrisolti da quello precedente. “La straniera” indagava l’appartenenza, l’immigrazione e le radici. “Missitalia” l’ho scritto in anni di grandi fratture sociali, mentre sul piano personale il tema era “il ritorno” dopo tanti anni all’estero. Non riuscivo a trovare metafore convincenti per raccontare questo rientro imprevisto, motivo per cui ho ambientato l’ultima parte del romanzo sulla luna, con l’ipotesi di tornare sulla terra. Una cornice, un macro-tema che non riuscivo ad affrontare con mezzi banalmente filosofici o sociologici».

“La straniera” è un romanzo autobiografico, in “Missitalia” tendi a frammentarti. Ci sei comunque tu?

«È un romanzo “iperpersonale”. Tre protagoniste, iterazione della stessa donna, sottoposte a diverse pressioni storiche, sociali e temporali, con una continuità ambientale. Quello che volevo restituire è un’idea poliedrica dell’esperienza femminile. All’interno di questi personaggi ho creato un collage, un aggregato di tasselli vitali: il risultato sono storie in cui la maturità di una donna paradossalmente arriva prima dell’infanzia stessa».

L’hai avvertito come un passo nel vuoto scrivere, proporti sul mercato con un libro così diverso dal precedente?

«Una passeggiata nel buio (ride ndr). Ho scritto cinque romanzi, ho sempre fatto cose diverse da un libro all’altro, ma è come se avessi costruito una mappa progressivamente estraniante. Volevo affrontare il rischio dell’immaginazione, in “Missitalia” c’è un dialogo a riguardo. Lavorare per la conferma, la sicurezza, oppure scegliere la passeggiata nel buio».

E a te piacciono le passeggiate nel buio…

«Assolutamente. La sicurezza è un investimento in perdita (sorride)».

Un libro che parla di promesse, fiducioso di una felicità che deve arrivare. Arriva davvero questa felicità?

«Assolutamente. Nel finale c’è un impianto critico verso la congestione della memoria, l’incapacità di elaborare nuovi ricordi, verso questa impostazione pedagogica per cui andare avanti è possibile solo se si è coscienti di quello che è successo. L’idea era mettere tutto questo in discussione, poter rinunciare alla totalità per indagare una felicità che discende dalla parzialità. L’utopia diventa la capacità di dire la parola fine, in qualche modo consapevoli che dopo una fine, ce n’è un’altra ancora».

Sei risoluta nel tuo approccio al finale, al definitivo?

«Sto cercando di imparare ad esserlo, anche per una certa insoddisfazione nei confronti dei romanzi contemporanei. Uno dei vizi di forma che noto ultimamente è l’incapacità di portare il libro all’estrema conseguenza. La chiamo la regola dei ¾. A un certo punto, a ¾, sparisce l’autrice, l’editor, la storia, nei casi peggiori la lingua: una sorta di smaterializzazione (sorride ndr). Intervistando Milo Manara, parlando del suo rapporto con Fellini, lo definiva allergico all’idea della “fine” nei suoi film. Invece io ricordo il piacere che provavo da bambina, quando alla fine dei cartoni vedevo il “The end”. Quella cosa segnava un prima e un dopo. Volevo chiudere il romanzo con la parola “fine”, anche se poi non mi è riuscito sintatticamente. Continuo però a difendere l’idea che sarebbe stato bello utilizzare questo doppio livello».

Tre donne al centro del libro: Claudia Durastanti è femminista?

«È un processo in costante trasformazione. Sono stata tanti tipi di femminista. Quando ero bambina ho ereditato il femminismo di mia madre, di attacco e difesa, quasi separatista. Poi ho avuto una fase di rigetto. L’obbiettivo nel passato era rompere il tetto di cristallo, ottenere le stesse posizioni degli altri. Adesso credo il femminismo sia una messa in discussione radicale delle posizioni di potere: se il modello sociale è iniquo faccio molta fatica a pensare che ottenere visibilità in quello spazio sia una un obiettivo. Il femminismo è una pratica politica, non è un pranzo di gala».

Non pensi però in questi tempi stia diventando proprio un pranzo di gala?

«Per una certa linea maggioritaria, sì. È il femminismo della presenza, che non riscontra molto il mio favore. Troppo preoccupato dei simboli, della forma, del posizionamento, e molto poco dalla pratica».

Nel romanzo parli di una stanchezza di Ada “nell’avere a che fare con l’intimità”. C’è un riferimento ideologico dietro?

«Ne “La straneira” raccontavo la dipendenza. Pur non avendo mai avuto dipendenze da sostanze, per i lunghi anni della mia formazione sono stata dipendente dai rapporti con gli altri. Ho sempre cercato di evitare il tema della solitudine e dell’autonomia. In “Missitalia” ci sono tre personaggi femminili che cercano di capire se c’è un percorso di autonomia, non necessariamente coincidente con fallimento o solitudine. Volevo esplorare, arrivando all’essenza, al momento di individuazione di sé».

Quando penso ai rapporti, non posso che pensare a Julio Cortázar. L’amore arma, l’amore passaporto, l’amore chiave. È qualcosa in cui ti specchi?

«È una domanda interessante. Avevo in passato abbracciato questa ideologia della “vergogna della sopravvivenza”. Se è amore, l’amore finisce, e tu sopravvivi in qualche modo falsifichi l’assunto di base. Cambiare questo è stato spostarmi su un piano di trasformazione, una piccola rivoluzione interiore. Mi manca il fuoco, l’afflato distruttivo, probabilmente simbiotico, sul piano personale quanto di creazione delle storie. Sono passata da una scrittura simbiotica a una scrittura parziale, che in questo momento mi restituisce grande luce e libertà. Però se mi avessi fatto questa domanda 5-10 anni fa, sarei rimasta sconvolta dall’idea di sentire dalla mia bocca cose del genere».

Non lo vivi come un compromesso?

«Solo come una trasformazione, non scontata. Ha un suo prezzo. È come trasferirsi in un altro paesaggio. Mi chiedono spesso della transizione da “La straniera” a “Missitalia”, a me sembrano due ere geologiche distinte ma contigue, alcune specie sono sopravvissute, altre no. L’amore inevitabilmente sopravvive come concetto, ma trasformato. O forse è tutta una cosa che mi racconto io per giustificare la perdita… (ride ndr)».

Parlando con Milo De Angelis una volta, mi ha detto di sentirsi uno scrittore circolare, che ritorna sempre sugli stessi temi, ritrovandosi. Tu ti senti più una scrittrice di lago o di fiume?

«Non l’ho mai detto, ma quando avevo diciassette anni ho scritto questo primo romanzo, totalmente assurdo, che rimarrà inedito per sempre. Si chiama “Grace”. L’ho iniziato dopo aver fatto questo sogno lucido, avevo visualizzato un cerchio dove c’era quest’acqua che scorreva costantemente senza stagnare, un flusso continuo. Un bambino si sdraiava sull’acqua e tutti intorno dicevano “all’acqua appartenevi e all’acqua tornerai”, quasi con cadenza religiosa. Da lì ho iniziato a scrivere. Non so neanche perché ti racconto questa cosa, probabilmente è stata una visione, qualcosa che ti permette di mantenere il movimento e il passaggio ma anche la riconoscibilità, quello che mi auspico come autrice».

Penso che quando qualcosa diventa ricordo, si è salvi. Scrivere ti serve per lasciare indietro qualcosa?

«Ci sono tante cose di cui non scrivo perché mi sembra di accelerare il naturale processo evolutivo. Ho sempre scritto dei luoghi solo quando li ho lasciati, un posto deve diventare inattuale per entrare nei romanzi. Quando però ne scrivi subentra un’altra dimensione di perdita: raccontare Londra ne “La straniera” ha precipitato il distacco e la trasformazione di quella città da luogo reale a fantastico. Mi capita sempre più spesso di pensare alla scrittura in maniera geologica, di scavo, estrattiva. Se sai che hai una materia ribollente legata alla tua memoria devi scegliere se sfruttare la risorsa in modo intenso oppure, per tornare alla circolarità, lasciarla essere qualcosa che ti accompagnerà a lungo. È una questione comunque intima, a prescindere da quanto tu voglia restare in conversazione con quel tema, il risultato sarà comunque la dissoluzione (ride ndr). Ci penso tanto a cosa crea una mappa e cosa invece una serializzazione di bassa intensità».

L’autore che ti ha fatto sentire l’esigenza di scrivere?

«Francis Scott Fitzgerald. Quando scrivi ti interessa forma, ritmo e stile. In lui trovavo tutti questi elementi. Non aveva la deriva jazzistica dei beat, ma una potente “chamber music”».

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