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Ambiente svenduto, le motivazioni del trasferimento a Potenza: «I giudici erano parti civili»

«Due delle parti civili costituitesi nel presente processo avevano svolto le funzioni di giudice di pace e una terza quelle di esperto della sezione agraria del tribunale di Taranto». È questo il motivo per cui la Corte d’appello del capoluogo ionico ha annullato la sentenza di primo grado del processo “Ambiente svenduto” relativo al reato di disastro ambientale contestato all’ex Ilva gestita dal gruppo Riva.

È sorta, stando a quanto si legge nelle motivazioni, una «questione d’incompetenza» sollevata dalle difese di alcuni imputati.

Di conseguenza, scrive la Corte d’appello, presidente Antonio Del Coco, «la sentenza di primo grado va annullata per tutti gli imputati e gli atti vanno trasmessi, per competenza, al procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Potenza per le determinazioni di sua spettanza».

La Corte d’appello evidenzia che «nel presente caso l’incompetenza ex articolo 11 del codice di procedura penale avrebbe dovuto rilevarsi sin dalla fase di celebrazione dell’udienza preliminare».

Adesso a Potenza si ripartirà dall’udienza preliminare. La sentenza annullata aveva portato a 26 condanne e alla confisca degli impianti. Condanne e confisca sono ora decaduti.

La Corte d’appello ha annullato la sentenza di primo grado nell’udienza del 13 settembre e oggi sono state rese pubbliche le motivazioni. Già prima della pausa estiva, la Corte aveva anche sospeso le provvisionali decise dai giudici dell’Assise nei confronti di una serie di imputati.

La Corte d’appello si è rifatta a una sentenza della Corte costituzionale. È scritto nelle motivazioni, depositate oggi, della decisione assunta lo scorso 13 settembre. Tutto ruota sulla costituzione tra le parti civili del processo di due magistrati onorari, Martino Giacovelli e Alberto Cassetta.

«La Corte d’assise – scrivono i giudici di secondo grado – ha attribuito rilievo alla circostanza secondo la quale il dottor Giacovelli, al momento della costituzione di parte civile, aveva, seppure da poco, cessato le sue funzioni e il dottor Cassetta aveva cessato di appartenere all’ordine giudiziario nel lontano 2005». Ma la Corte costituzionale, sostiene il collegio dell’Appello, ha ritenuto «ragionevole la regola che dispone l’applicazione della disciplina ordinaria in materia di competenza nel caso di persone ormai prive di funzioni giudiziarie non in ogni caso ma soltanto al momento della commissione del fatto. Dunque, contrariamente agli assunti della Corte di assise, ciò che più conta è la sussistenza della qualifica soggettiva al momento del fatto, o successivamente a esso nel momento in cui pende il procedimento, essendo irrilevanti i suoi mutamenti successivi prima dell’avvio del procedimento penale (2010)».

Nelle motivazioni, la Corte d’appello dice ancora che «in sostanza, con specifico riferimento a questi due magistrati, il giudice di primo grado ha ritenuto che l’articolo 1 del codice di procedura penale presupponga non soltanto che il magistrato eserciti o abbia esercitato le sue funzioni nello stesso distretto di Corte di appello del giudice competente secondo le regole ordinarie, ma, anche, che la qualità di magistrato debba sussistere nel momento dell’assunzione formale della qualità di indagato, imputato, persona offesa, danneggiato dal reato».

Nello specifico, Giacovelli «si era costituito parte civile per ottenere il risarcimento dei danni cagionati dalle immissioni nocive al suo terreno, sito nelle immediate vicinanze dello stabilimento siderurgico». Cassetta, invece, «aveva agito per il riconoscimento del risarcimento dei danni patrimoniali, e non, cagionati dalle condotte criminose degli imputati. Nello specifico, egli, residente, insieme alla moglie, nelle immediate vicinanze dello stabilimento siderurgico, nel quartiere Borgo di Taranto, e proprietario di immobili nella stessa zona, aveva rappresentato di aver subito, ingiustamente e concretamente, le conseguenze nocive delle polveri inquinanti provenienti dai parchi minerari che non soltanto avevano deteriorato le abitazioni di residenza ma lo avevano anche esposto al concreto rischio, poi, avveratosi, di contrarre gravi malattie per le esposizioni agli agenti patogeni. Egli, in sostanza – scrive ancora la Corte d’appello – aveva subito, quotidianamente, la compressione del suo diritto ad abitare liberamente nella propria casa vivendo, peraltro, nel costante timore di contrarre malattie, nonché il deprezzamento del proprio immobile, per cui aveva agito nei confronti di tutti quegli imputati che, a qualunque titolo, erano stati ritenuti coinvolti nell’attività illecita svolta dall’Ilva, sia che fossero i gestori dello stabilimento siderurgico, sia i pubblici ufficiali che, attraverso le condotte loro contestate, avevano reso possibile che l’Ilva continuasse a produrre e a inquinare».

Per la Corte d’appello, se «deve ritenersi ampiamente giustificata la costituzione civile di Martino Giacovelli, Alberto Cassetta quali persone danneggiate dai reati, deve ritenersi infondata la tesi che vorrebbe individuare in ciascuno dei magistrati che abitano, o che sono proprietari di immobili nelle zone circostanti lo stabilimento Ilva, per ciò solo, persone offese o danneggiate dai reati in materia di inquinamento ambientale. Infatti, nei reati, come quelli di cui si tratta, che coinvolgono un numero indeterminato di persone, la contestazione mossa dal pm consente di delimitare solo l’ambito spazio-temporale nel quale è possibile individuare i potenziali danneggiati. Infatti – rileva la Corte d’Assise – proprio l’impossibilità di identificare, specificamente, questi ultimi, vale a dire coloro i quali ritengono di avere subito, in concreto, un danno, non permette di ritenere che, per il solo fatto di risiedere nel territorio interessato dall’attività inquinante, si possa essere individuati, men che meno astrattamente individuabili, come danneggiati o persone offese».

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