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Il coraggio di criticare il sistema dell’antimafia, parla Barbano: «Confini netti tra diritto e società»

«Quando le leggi speciali diventano norma ordinaria, usciamo dal terreno della democrazia e rischiamo di trasformarci in un regime». È una delle conclusioni a cui giunge il giornalista e saggista Alessandro Barbano, per presentare la sua ultima fatica letteraria, il libro “L’inganno. Antimafia. Usi e soprusi dei professionisti del bene”.

Ha scelto un titolo forte per questo libro. Cosa intende per inganno?

«L’inganno, lo preciso nell’ultimo capitolo, è un inganno politico, non morale. L’antimafia ha tradito la funzione e la delega avuta dallo Stato, ed è diventata una macchina dell’emergenza. E come ogni macchina dell’emergenza finisce per servire e giustificare soprattutto se stessa, proteggendosi dietro una retorica falsa che ci spinge a dire che abbiamo la legislazione migliore del mondo».

È davvero così?

«Evidentemente no. Se abbiamo la legislazione migliore del mondo perché nessuno confisca patrimoni e beni senza un giudicato di condanna nel resto d’Europa? Qualcuno potrebbe dire “perché solo noi abbiamo la mafia”. Ma, se vale questo ragionamento, allora bisogna ritenere che negli Stati Uniti la lotta al terrorismo può passare anche per Guantanamo con il suo stato di eccezione. Condanniamo Guantanamo ma ci piace il 41 bis».

Che intende dire?

«Bisogna essere coerenti, a me non piace né Guantanamo e nemmeno il 41 bis. Credo che per combattere la mafia sia sufficiente lo Stato di diritto e, soprattutto, un diritto penale che lotta con tutti gli strumenti leciti a disposizione e in linea con le garanzie dello Stato liberale. A questo vanno poi affiancate politiche di trasparenza, di investimento, di scolarità, civile e di cultura soprattutto nel Mezzogiorno».

Una posizione controcorrente?

«Io rivendico semplicemente il diritto di criticare il sistema dell’antimafia. Uno dei problemi in questo Paese è che chi la critica viene bollato come un garantista “peloso” o peggio, come un complice della mafia (cosa accaduta anche a Leonardo Sciascia). Io invece credo che sia legittimo criticare un pubblico potere, tanto è vero che mi si dice che ho scritto un libro coraggioso, ma non dovrebbe esserlo».

Cosa vuol dire coraggioso?

«Coraggioso è sfidare la mafia, non scrivere un libro con delle perplessità legittime. In un clima conformista chi osa esprimere dissenso per questa macchina dell’emergenza viene additato dall’opinione pubblica».

Abbandonare questo sistema dell’emergenza è dunque possibile?

«Questo sistema di emergenza, oggi, è una delle cause dell’inquinamento del tessuto civile del Mezzogiorno. I confini tra il diritto penale e la società devono essere netti: bisogna sapere cosa è reato a cosa no. È una zona grigia dentro cui finisce di tutto. Può così accadere, e accade, che nello stesso giorno c’è un tribunale che ti assolve perché il reato non sussiste e un tribunale che confisca i tuoi beni, la tua azienda, i tuoi conti correnti e persino la collanina che hai regalato a tuo figlio. Alla base vi è la differenza tra la condanna e la confisca».

Qual è?

«La prima è un provvedimento penale, che si basa sulla colpevolezza e si decreta oltre ogni ragionevole dubbio. La confisca, invece, si fonda su compendi indiziari, non c’è necessità di questa certezza. Se nello stesso giorno puoi essere dichiarato innocente ma lo Stato si prende tutto, per il diritto c’è coerenza, per la vita no. Non è semplice spiegarlo a un cittadino. Io ho voluto mettere a confronto quella coerenza interna al diritto con l’assurdità nei confronti della vita delle persone. Questa contraddizione spiega perfettamente cosa vuol dire tenere in piedi delle leggi eccezionali».

Questo discorso come si lega alla riforma della Giustizia tanto attesa in Italia?

«Sono due cose diverse. La riforma della giustizia è necessaria e doverosa e i processi dovrebbero essere più veloci. Io però segnalo un altro problema che è completamente sottovalutato nel dibattito pubblico: l’esistenza di due forme di diritto penale in Italia. Il diritto del codice penale e il diritto delle cosiddette misure di prevenzione. Queste due giustizie sono parallele. Cosa è accaduto in molti casi in questi anni? Tu sei stato indagato, hai affrontato un processo e sei stato assolto, quando pensi che sia finalmente finita ecco che inizia il diritto di prevenzione e ti tolgono i beni, magari ti fanno fallire, e poi te li ridanno magari dopo 18-20 anni. Il tempo incide, sì, ma è relativo. Il problema è sempre lì, la gente non lo sa che in questo paese esistono due forme di contrasto all’illegalità».

Quali?

«Una fondata sulla libertà personale e una sulla ablazione dei beni, cioè la confisca e il sequestro. Queste due forme sono autonome ed è questo il problema che segnalo. Sono passato personalmente attraverso gli effetti collaterali di questa macchina e il dolore che produce. Ho voluto guardare anche a questo lato oscuro e ho scoperto che non è solo il frutto di un errore giudiziario o del caso. È troppo facile derubricarlo in questo modo. Purtroppo la macchina della legislazione antimafia produce una quota di ingiustizia molto forte non è tollerabile».

Come conciliare tutto questo con la lotta alla mafia?

«È giusto perseguire i patrimoni dei mafiosi, confiscare loro i beni, anche prima di averli condannati, però questo deve avvenire all’interno di un processo penale e con le stesse garanzie di accertamento del reato. Con questa legge che riguarda espressamente il fenomeno mafioso colpiamo però anche corruzione, ’evasione fiscale, truffe e addirittura lo stalking. Se la legge speciale diventa norma ordinaria rischiamo di trasformarci in un regime».

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