Home Editoriali Lavoro soppiantato dal consumo: il paradigma che penalizza il Sud

Lavoro soppiantato dal consumo: il paradigma che penalizza il Sud

La parabola italiana descrive paradossalmente, quanto magistralmente, la transizione epocale dal lavoro come impegno individuale/dovere collettivo all’assistenza come pretesa personale/contropartita pubblica. Un bel percorso, non c’è che dire, da codificare come un paradigma esemplare destinato a verificare lo scostamento di una comunità dalla virtù e dal ludibrio. La sua oscillazione tra i due estremi.

In un tempo lontano non più di qualche generazione, gli individui, le comunità locali e le stesse nazioni venivano valutate in funzione della propensione al lavoro. “Sfaticato” era l’insulto più oltraggioso insieme a “mangiapane a tradimento”. Almeno al Sud, ma non si sbaglia a dire che fosse vero per l’intera nazione. La gente lavorava da mane a sera. E guai a starsene in casa. Significava malattia o malaffare. Senza possibilità di sbagliare. Certo a quel tempo – stiamo parlando dei decenni del dopoguerra – la società italiana e la comunità meridionale erano caratterizzate da civiltà, cultura ed economia contadina. Ci si spezzava la schiena. Con zappa o vanga e l’acqua in genere andava attinta dai pozzi a forza di braccia e spostata anche a forza di braccia.

Per fortuna la infinita ricchezza della biodiversità mediterranea dava una mano. Molte varietà di ortaggi, a cominciare dalle molte e preziose varietà di pomodori per l’inverno, non avevano granché bisogno di acqua. Anzi! Dovevano immagazzinare sole a più non posso per diventare appunto “pomodori d’inverno”, chiamateli come volete, “te ‘mpisa” o “del piennolo”. Anche olivi, fichi, mandorli, peri e meli, melegrane e le mele cotogne, non avevano pretese.

Bastava la provvidenza del Padreterno. E tutti si davano da fare. Chi a dissodare le campagne, chi a ferrare i cavalli, chi a costruire carretti, chi a fabbricare case e tuguri o innalzare muretti e furnieddhi o trulli, chi a cucire o rivoltare abiti o a sistemare porte e finestre. Era una società che funzionava. E nessuno stava con le mani in mano. Come nulla andava perduto.

Anche le olive cadute fuori dal cerchio degli alberi o le spighe lasciate indietro dai mietitori servivano per vedove, orfani e poveri, come la legna dei boschi o della macchia. La Costituzione sancì la sacralità del lavoro: “L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro”. Sul lavoro e sulla istruzione. Tutti dovevano lavorare e tutti dovevano andare a scuola. Altro che cambiamento: era una rivoluzione. E i contadini/braccianti, diventati manovali e poi operai, fecero grande l’Italia e riscattarono la storia del Sud.

Di giorno a lavorare e di sera a studiare. Sono venuti fuori fior di operai e artigiani, imprenditori anche e persino poeti. I tuguri vennero sostituiti da case come Dio comanda. I figli dei contadini presero la via dell’estero e delle fabbriche. E mandavano soldi ogni mese con cui la famiglia andava avanti mentre i padri costruivano le nuove abitazioni per quando quelli sarebbero tornati e si sarebbero sposati mettendo su famiglia, mandando a scuola i figli e insegnando loro che il lavoro e l’istruzione erano i binari su cui bisognava camminare.

Poi qualcosa si ruppe. Veneto, Emilia-Romagna, Lombardia, Piemonte e Liguria si misero a correre. Il Sud rimase a guardare. Eppure non erano pochi i casi di amicizie nate in Germania tra ex contadini pugliesi ed ex contadini veneti, tra liguri e lucani, calabresi e piemontesi. Tutti diventati, insieme, manovali e operai, artigiani e piccoli imprenditori. Il fatto è che mentre nel Mediterraneo e intorno alle terre del Sud divampavano le guerre di liberazione dell’Africa e del Medio Oriente, sul Mare del Nord ci si attrezzava per creare la società dei consumi. L’America dettava tempi e ritmi e spargeva soldi in abbondanza. A nord costruivano strade e ferrovie, il Mezzogiorno guardava.

Il Mediterraneo, intanto, restava teatro di guerra. La guerra fredda tra comunismo e democrazia, Oriente e Occidente, aveva sostituito le guerre di liberazione africana, i Balcani avevano le loro gatte da pelare tra Russia e Cina e l’Albania catturava i pescatori che si avventuravano al largo dell’Adriatico scambiandoli per spie. Intanto il Nord correva e il Sud deperiva. I campi erano stati abbandonati. Le poche fabbriche erano state messe fuori gioco dalla globalizzazione. Certo, resistevano le eccellenze. Ma quelle erano eccezioni e le eccezioni confermano la regola e la regola era che l’Italia non sapeva che farsene del Sud. Pure l’agricoltura era stata ridotta all’osso e le grandi fabbriche avevano chiuso.

Erano rimasti solo i mastodonti inquinanti e mortiferi come l’Ilva, l’Italsider, le raffinerie, le centrali elettriche a carbone, e i tumori aumentavano a vista d’occhio mentre gli operai diminuivano. I sogni dello sviluppo del Mediterraneo e del Mezzogiorno italico legati a Enrico Mattei e Adriano Olivetti erano svaniti. Drammaticamente fatti svanire con i loro profeti.

Ormai il paradigma atlantico che aveva condotto all’abbattimento del muro di Berlino e alla costruzione del villaggio globale, aveva vinto su tutta la linea. Anche a sud. Dappertutto dottori e ingegneri, diplomati e laureati e voglia di bere spritz o metropoli ovunque queste stessero. Tanto volare non era più un problema. Andavi e tornavi e pure la nostalgia non era un impedimento. Anzi non esisteva proprio più. Poi di nuovo qualcosa si è rotto. A furia di produrre e consumare il meccanismo si era inceppato. Il paradigma atlantico non era più l’unico e nemmeno vincente, addirittura.

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