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Quando il nemico è in casa

Sono dati inquietanti quelli che emergono dal report del terzo dipartimento della Procura di Bari in merito alla violenza sulle donne e ai reati endofamiliari commessi nell’ultimo anno nel capoluogo. Ci dicono di una cultura ancora troppo diffusa, quasi inspiegabilmente – e maledettamente – tenace e resistente alle tante forme di impegno, mobilitazione e sensibilizzazione in atto. Una macchia, uno stigma insopportabile per società che si vogliono civili, avanzate, che discutono di intelligenza artificiale e celebrano (forse anche con stupore) il premio Nobel a una studiosa che ragiona di gender gap nel mondo del lavoro e individua lucidamente cause che sono culturali prima ancora che economiche, imputabili a un tempo lungo del patriarcato la cui rotta non si riesce mai veramente a curvare. Ci dicono che il pericolo non si annida solo fuori dalle rassicuranti mura domestiche, che il “nemico” non è sempre altrove, lontano, sconosciuto, e quindi più facile da individuare e fronteggiare. Ma spesso è vicino, e per questo più difficile financo da riconoscere e permettergli di non nuocere più.

Ma alla desolante contabilità dei casi di violenza si affiancano i risultati delle azioni del terzo dipartimento, che ci inducono a sperare, a credere che vi sia una strada tracciata. Lunga e tortuosa, certo, ma tracciata. Ci dicono che la giustizia non si fa trovare impreparata; che, con impegno e determinazione, sa disattendere una retorica che si nutre di una reiterata e rassegnata aspettativa di indifferenza, ritardo, ingabbiamento in mille pastoie burocratiche e inceppamento della macchina. Che è in grado di garantire – e il caso di Bari lo conferma – l’effettività della tutela, di mostrarsi ed essere produttiva, di non inciampare nella trappola della cosiddetta vittimizzazione secondaria, per cui chi è oggetto di violenza deve giustificare la sua condotta e dimostrare di non aver sollecitato comportamenti violenti a suo danno, di non essere preda facile di vigliacca esibizione di possesso e violazione; in definitiva, complice più o meno inconsapevole di quanto subisce. Ci dicono che la giustizia può configurarsi come momento di accelerazione di un mutamento culturale e sollecitare, con la sola forza (questa sì ammessa) del diritto, il rispetto della persona. E censurare ogni sua violazione.

Dunque, lo sgomento si vena pudicamente di ottimismo, di fronte a «un pezzo importante del lavoro della Procura poco visibile – come sottolinea il Procuratore Roberto Rossi –, che incide direttamente e maggiormente sulla vita delle persone», e offre l’esempio virtuoso di una giustizia efficace e tempestiva, come ha rimarcato a sua volta il Procuratore aggiunto Ciro Angelillis. Elementi cruciali e determinanti per contribuire a scongiurare altra violenza, per indurre a credere che la cultura della sopraffazione non possa avere corso, anche perché c’è una occhiuta sorveglianza in atto. In attesa di non venire più quotidianamente a conoscenza di femminicidi, stupri, violenza – fisica, sessuale, psicologica e simbolica – tanto più inaudita quando colpisce chi condivide col suo carnefice la propria vita.

Annastella Carrino – Docente di Storia di Genere all’Università di Bari “Aldo Moro”

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