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Raccontare quello che si vede

In momenti come questi, sotto le bombe, davanti a un dolore che toglie il fiato, o presi dalla paura per l’Apocalisse alle porte, il giornalista può essere portato a cedere alla lusinga della militanza, dunque alla tentazione di militare per la pace, per il bene, per la giustizia. Ma l’assoluto è sempre in guerra con il relativo e il relativo permette al dubbio di esistere. Tutto questo per giustificare qualcosa o qualcuno con il colbacco? Assolutamente no. Anzi. Tutto questo per non sacrificare, tra i valori in gioco in questa guerra, anche quello del pluralismo, che è un valore fondante della democrazia e della civiltà occidentale.

Ecco perché l’unica strada è raccontare i fatti per quelli che sono ai nostri occhi. Proprio come ci ha insegnato a fare Indro Montanelli nel 1956, quando era inviato in Ungheria: «Solo questo posso dirvi, quello che vedo». Paradossalmente, da questo punto di vista il compito più facile è quello del testimone, dell’inviato sul campo. Più difficile, ma assolutamente meno rischioso, è invece il compito dell’analista, di chi deve creare il contesto. Ma anche qui affidarsi al valore del pluralismo è la migliore bussola che si possa usare.
Detto questo, ciò che io vedo è che c’è un aggredito e un aggressore. Che l’aggressore è Putin, che la Russia è ancora una stratocrazia (dal greco stratos, esercito) e che in Russia i giornalisti vengono sempre più spesso uccisi.

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