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Lavoro agile nella Pa? Sì, ecco come

La nomina del ministro della Pubblica Amministrazione è stata accompagnata da particolare curiosità. Una curiosità dettata non solo e non tanto dalla personalità chiamata a ricoprire l’incarico, ma soprattutto dall’orientamento del nuovo governo in materia di organizzazione dei pubblici uffici.

A darne un primo assaggio è stato proprio Paolo Zangrillo al quale la neo-presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, ha affidato la delega alla Pubblica Amministrazione. «Lo smart working può funzionare», ha chiarito Zangrillo in un’intervista rilasciata all’indomani della nomina, ricordando come la pandemia abbia fatto lievitare da 500mila a cinque milioni il numero delle persone che quotidianamente sperimentano forme di lavoro agile. Il tema è cruciale perché riguarda il modello di Pubblica Amministrazione che il nuovo governo intende portare avanti. Già, perché, per funzionare, lo smart working presuppone il passaggio dalla stantia logica degli adempimenti e del controllo a quella, decisamente più moderna, dei risultati e della responsabilità.

Siamo onesti: soprattutto nella prima fase della pandemia, molti dipendenti della Pubblica Amministrazione sono stati spesso e volentieri irreperibili. E questo non per indolenza o difetto di buona volontà, ma perché gli enti pubblici, al pari di molte aziende private, non erano preparate a una forma di lavoro nuova come lo smart working. Anzi, da quel momento, molti dirigenti pubblici e manager privati hanno maturato una forma di sospetto nei confronti del lavoro agile che spesso è sfociata nell’aperta idiosincrasia. Il caso più eclatante è stato quello di Elon Musk, patron di Tesla, che non ha esitato a minacciare il licenziamento dei dipendenti intenzionati a lavorare in smart working. «Il lavoro da remoto non è più accettato – ha scritto Musk ai dipendenti – Tutti quelli che intendono lavorare da remoto devono essere in ufficio per un minimo (e sottolineo un minimo) di 40 ore a settimana, oppure devono lasciare Tesla». Affermazioni di questo tipo, però, non giovano al dibattito perché – piaccia o meno – il lavoro agile ha spinto molte pubbliche amministrazioni e aziende private a sperimentare modelli organizzativi che costituiscono un patrimonio da alimentare e valorizzare. In che modo bisogna farlo? È presto detto. Primo: bisogna garantire agli enti pubblici dotazioni tecnologiche sicure, affidabili, attraverso i quali il personale possa agevolmente svolgere le proprie mansioni e, parallelamente, i cittadini possano interagire con l’amministrazione senza eccessive difficoltà. Quanto al settore privato, è lecito ipotizzare misure che agevolino le aziende nel procurarsi queste indispensabili strumentazioni tecnologiche. Ciò che deve cambiare, tuttavia, è l’approccio alla gestione del lavoro. Per far sì che lo smart working funzioni occorre che un’intera unità operativa condivida una missione e sappia declinarla in obiettivi e che proprio sulla base del conseguimento di questi obiettivi siano valutati dipendenti e collaboratori. La prospettiva dev’essere quella di migliorare la qualità dell’azione pubblica trovando il giusto equilibrio tra vita e lavoro e, parallelamente, garantendo servizi migliori e più efficaci con una netta crescita di efficienza, efficacia e produttività. Tutto ciò in un quadro normativo quanto più certo e chiaro possibile, che definisca i diritti e i doveri in capo ai dirigenti e ai dipendenti e collaboratori in smart working. Il mondo del lavoro è in continua evoluzione e stavolta non possiamo farci cogliere impreparati.

Raffaele Tovino è dg di Anap

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