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Superbonus, come uscire dall’impasse

Le prospettive delle imprese, i salari dei lavoratori, senza dimenticare quell’imprescindibile patto di fiducia tra Stato, contribuenti e operatori economici. Il decreto con cui il governo Meloni ha eliminato la possibilità di fruire dell’agevolazione per tutti i bonus fiscali, a cominciare dal Superbonus, tramite sconto in fattura o cessione del credito, mette in discussione tutti questi valori.

E proprio per questo motivo è indispensabile che sulla questione si trovi al più presto un accordo, possibilmente senza cedere a facili ideologismi che sono sempre dietro l’angolo.

Partiamo dai numeri. Nel corso di una recente audizione in Commissione Finanze e Tesoro, il direttore generale del Ministero ha evidenziato come la previsione di fabbisogno per il Superbonus ammonti a 61 miliardi, circa 25 più di quanto originariamente preventivato. E, al momento, l’agevolazione introdotta dal governo Conte è stata utilizzata per ristrutturare soltanto il 2% del patrimonio edilizio. Bastano questi dati per comprendere come la misura, alla quale va riconosciuto l’innegabile merito di aver contribuito alla rivitalizzazione di un settore cruciale per l’economia nazionale come quello dell’edilizia, sia alla lunga poco sostenibile. Davanti all’evidenza dei numeri, il governo Meloni ha decretato lo stop allo sconto in fattura e alla cessione del credito, provocando la prevedibile levata di scudi di imprese e sindacati e vedendosi successivamente costretto ad aprire un tavolo di confronto con tutti gli attori della vicenda. Qui non ci si può esimere dal fare un’osservazione: sebbene per far quadrare i propri conti, l’esecutivo ha prima deciso e solo in un secondo momento si è “piegato” a concertare, senza peraltro dimostrare di avere una soluzione strutturale al problema. Si tratta di un evidente errore di metodo, per la verità ripetuto anche per quanto riguarda l’ex Ilva e l’autonomia differenziata, capace di minare la fiducia tra lo Stato e i cittadini.

E qui passiamo al merito della vicenda. Le imprese, che facevano affidamento sullo sconto in fattura e sulla cessione del credito, vedono ora minate le proprie certezze. Il rischio che migliaia di ditte restino prive di liquidità e che i cantieri si fermino, infatti, è particolarmente alto. Le conseguenze sarebbero devastanti: secondo l’Ance Puglia, nella regione rischierebbero il licenziamento circa 30mila tra operai e tecnici. Una soluzione potrebbe essere quella restituire alle banche la possibilità di utilizzare i crediti in compensazione con modello F24 per una parte dei debiti dei propri clienti. E questo sembra l’escamotage più rapido ed equo: l’alternativa sarebbe la cartolarizzazione, cioè la vendita delle somme a società specializzate che per pagarne il prezzo di acquisto emetterebbero dei titoli.

Oltre le imprese, però, i contribuenti attendono una soluzione. Il decreto adottato il 16 febbraio scorso dal governo Meloni, infatti, restringe la possibilità di fruire dei bonus soltanto ai contribuenti capienti: chi ha un reddito basso non riesce a scontare le spese e, quindi, a beneficiare dell’agevolazione. Come se ne esce? Si potrebbe abbassare da subito la quota di spese detraibili dal 90 al 65%, previsione tra l’altro già contenuta nella legge di bilancio del 2022 ma per le spese compiute a partire dal 2025. Oppure si potrebbe consentire a chi ha un reddito basso di ottenere il rimborso della parte di detrazione che, non avendo abbastanza imposte da pagare, non riesce a utilizzare. Insomma, le soluzioni ci sono e vanno vagliate al più presto: in gioco non c’è solo il futuro di migliaia di imprese e famiglie, soprattutto al Sud, ma anche la tenuta del patto di fiducia tra lo Stato e gli italiani.

Raffaele Tovino è dg di Anap

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