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Un monito contro la giustizia di piazza

Che la giustizia sia lenta ma inesorabile è noto. Tuttavia, non è facile far comprendere all’opinione pubblica come sia stato possibile, a distanza di oltre un quarto di secolo, annullare la condanna per associazione mafiosa contenuta nella sentenza con la quale Francesco Cavallari, scomparso l’anno scorso, patteggiò la pena di ventidue mesi per una serie di reati. Annullamento che ora potrebbe aprire un nuovo scenario in relazione alla confisca del suo enorme patrimonio, disposta proprio sulla base di quella condanna.

La ragione di questa apparente anomalia è nota: Cavallari è stato l’unico condannato per quel reato, posto che nel frattempo tutti i suoi presunti correi sono stati assolti dalla stessa imputazione perché il fatto non sussiste. E se Cavallari non era mafioso per nessuno, non può certo esserlo solo per sé. Dovrebbe essere ovvio, anche se non è né il primo né l’unico caso in cui sentenze diverse affermano e negano il medesimo fatto, con esiti opposti. Il diritto, a volte, genera paradossi.

Ci sarebbe molto da dire, nel merito di quella indagine. Cavallari fu trattato da collaboratore di giustizia – come dimostra l’entità del patteggiamento per reati solitamente puniti con anni di reclusione a doppia cifra – generando equivoci e autentiche ingiustizie, anche ai danni degli stessi inquirenti. E anche se oggi si guarda solo alla tardiva assoluzione per il reato associativo, ci sarebbe molto da dire, nel bene e nel male, su quel modello di sanità privata e sulle modalità con cui venivano gestiti i rapporti con la pubblica amministrazione.

Pochi, tuttavia, hanno ricordato che quella stagione partorì due grandi inchieste, a distanza di pochi mesi l’una dall’altra: quella sull’incendio del Teatro Petruzzelli e la cosiddetta Operazione Speranza, con arresti clamorosi in entrambi i casi e una ipotesi investigativa comune, fondata sulla ricostruzione di un patto scellerato tra imprenditori, politici e mafiosi. In entrambi i casi, i processi si sono conclusi con l’assoluzione dei principali imputati, perché quel patto non c’era. Sarebbe il caso di tenerlo a mente, almeno per il futuro: la presunzione di innocenza non è un optional, ma un principio di civiltà. La giustizia penale, nonostante tutto, è cosa seria, che va rispettata sempre. Il diritto di difesa sacrosanto, per chiunque.

Oggi lo abbiamo dimenticato, ma per anni, a Bari, chi avanzava qualche dubbio sulla fondatezza di quelle indagini, o delle prime sentenze, passava per sprovveduto o traditore della Patria. Accade ancora adesso, in tanti casi. Ma proprio per questo sarebbe ingeneroso prendersela con chi ha indagato, formulato quelle accuse e pronunciato le condanne poi annullate. Sarebbe un errore che si aggiunge all’errore, un altro modo per prendersela con gli altri, senza accorgersi che gli altri siamo anche noi.

Quando un processo si conclude con una assoluzione non è una sconfitta per lo Stato, ma un monito per la giustizia di piazza, contro chi pronuncia condanne anticipate per sentito dire, sulla sola base della contestazione di una accusa. Si dovrebbe sapere che in piazza venne assolto Barabba e condannato Gesù Cristo. Saremo capaci di ricordarlo, al prossimo arresto eccellente?

Michele Laforgia è avvocato penalista e presidente de “La Giusta causa”

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