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«I manichini di Zara ricordano i morti di Gaza». Il caso del colosso del fast fashion

Nuova polemica per Zara, costretta a ritirare una campagna pubblicitaria dopo essere stata accusata di ”offendere i palestinesi” vittime dei raid israeliani sulla Striscia di Gaza. A essere contestate dagli attivisti palestinesi, che avevano chiesto il boicottaggio dei capi di abbigliamento del marchio spagnolo, sono state alcune foto dove si vedono modelle tra le macerie e manichini senza arti avvolti in sacchi bianchi. ”Una scena morbosa”, avevano denunciato i contestatori, secondo i quali si faceva riferimento ai morti palestinesi nella Striscia di Gaza prendendoli in giro. O comunque usando un ”simbolismo inaccettabile”.
Zara, dal canto suo, si è difesa affermando che le foto in questione, per la campagna pubblicitaria ”The Jacket’, erano state scattate prima dell’attacco sferrato da Hamas contro Israele e della guerra che ne è conseguita. Il marchio di abbigliamento ha comunque deciso di rimuovere le fotografie dai social media.

“La campagna, ideata a luglio e fotografata a settembre, presenta una serie di immagini di sculture non finite nello studio di uno scultore ed è stata creata con l’obiettivo di presentare capi di abbigliamento realizzati a mano in un contesto artistico. Purtroppo alcuni clienti si sono sentiti offesi da queste immagini e vedevano in loro qualcosa di molto lontano da ciò che si intendeva”, si legge in una nota diffusa dalla casa di abbigliamento. Zara si rammarica di questa incomprensione e «ribadisce il suo profondo rispetto per tutti» accolto gelidamente sui social dove è di tendenza l’hashtag #BoycottZara.

Il caso dei manichini non il primo ciclone scatenato contro il colosso del fast fashion infatti, l’anno scorso in migliaia hanno chiesto il boicottaggio di Zara, dopo che Joey Schwebel, il presidente di Trimera Brands, affiliato israeliano del brand, ha ospitato a casa propria una riunione con il politico ultranazionalista Itamar Ben-Gvir a casa sua. Tornando indietro al 2021, l’Head of Design Vanessa Perilman inviò messaggi poco consoni su Instagram alla modella palestinese Qaher Harhash: “Forse se la vostra gente fosse istruita, non farebbe saltare in aria gli ospedali e le scuole che Israele ha contribuito a pagare a Gaza”, aveva scritto in uno dei messaggi Perilman ad Harhash. “Gli israeliani non insegnano ai bambini a odiare e a non lanciare pietre contro i soldati, come fa il vostro popolo”.

Dopo che i messaggi vennero resi noti, Zara intraprese un’azione disciplinare nei confronti della Perilman, che terminò con delle scuse pubbliche. Anche all’epoca ci fu chi chiese il boicottaggio del brand, ma ai tempi fu più semplice prendere le distanze dalle parole di una collaboratrice, stavolta la responsabilità che i social affidano si riferisce all’intera squadra di lavoro della campagna pubblicitaria.

Lo scorso anno anche Balenciaga finì nel mirino delle polemiche per una campagna pubblicitaria che ritraeva bambini che tenevano in mano orsacchiotti con finiture fetish circondati da altri oggetti dell’immaginario Bdsm, l’insieme di pratiche sessuali estreme che comportano sottomissione e violenza.

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