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Elena Fucci e le sue cantine a Barile: «Potevamo vendere o investire. Io scelsi la seconda e oggi esportiamo in 56 Paesi»

Aveva 18 anni quando decise che le sue vigne, sei ettari a 600 metri di altezza sulle pendici del Vulture, sarebbero diventate un marchio lucano da far conoscere in tutto il mondo. Nei primi anni 2000 i vini meridionali erano ancora i fratelli minori di altri più noti, ma Elena Fucci, titolare dell’omonima cantina di Barile, intuì che la tendenza prima o poi si sarebbe invertita. E se le chiedi a chi si paragona, ti risponde “Giovanna D’Arco” e aggiunge ridendo: «Lo so che fece una brutta fine». Oggi anche grazie al suo coraggio l’aglianico, vitigno autoctono della Basilicata, è pluripremiato e pluririchiesto nei mercati americani e asiatici.

Possiamo dire che i nostri vini ora se la giocano quasi alla pari con i vari brunello, barolo, barbaresco…

«Io eliminerei anche il quasi».

Pardon.

«Certo, basti pensare che le uve del Sud vanno spesso a rimpinguare o addirittura a migliorare le cattive vendemmie del Nord. Le nostre uve invece posso dire con fierezza che restano qua e vengono vinificate qua. Non lo dico io, lo dice la storia dell’enologia».

Ecco appunto, si è laureata in Viticoltura ed Enologia all’Università di Pisa. Ha sempre avuto le idee chiare sin da ragazzina?

«Avevamo dei vigneti di famiglia, ma i miei genitori facevano tutt’altro, sono insegnanti di fisica e di matematica e io stavo per iscrivermi a Ingegneria genetica, mio nonno si occupava dei vigneti, tra l’altro non vinificava, vendeva solamente le uve. Venti anni fa avevamo due opzioni: vendere tutto o investire. Io scelsi la seconda. Ancora mi chiedo che cosa sarebbe accaduto se in quegli anni io fossi stata anche solo due anni più piccola o già grande. La mia vita avrebbe preso un’altra piega, invece oggi sento su di me la responsabilità di rappresentare la mia regione, esportiamo in 56 Paesi nel mondo».

Come ci si sente?

«Mi vengono i brividi, davvero, quando penso alla mia storia familiare e personale mi rendo conto che diventa rappresentativa del territorio dove sono nata, lo dico senza presunzione, ma con senso di responsabilità».

Ed è cambiata anche la Basilicata in questi anni?

«Eccome, infatti io non accetto di sentir dire che qui non c’è niente. Ma le persone se lo ricordano come era venti anni fa? Siamo 580mila abitanti, quasi un quartiere di Roma, non si può pretendere che ci siano centinaia di aziende, anzi in proporzione i risultati raggiunti sono significativi».

A parte la caparbietà, che mi sembra evidente, che cosa le è servito per lanciarsi nei mercati internazionali?

«Lo studio e la volontà di metterci la faccia. Mai improvvisarsi. Di questi tempi molti si mettono a produrre vino, certo ben venga, però farlo spiegando anche la propria storia e quella del territorio è diverso».

Se poi si è donna diventa più difficile?

«Bisogna fare una distinzione: donne nel mondo del vino ce ne sono, ma poche sono enologhe, di solito le donne produttrici hanno studiato marketing o Lingue, pochissime invece decidono di iscriversi a Enologia. Le cose sono cambiate anche perché questo non è più un lavoro di manovalanza, le tecnologie ci hanno aiutato, quindi è più facile immaginare una donna che se ne occupa».

Ormai quello del vino è un mondo glamour.

«Non lo era quando ho iniziato, sarà anche vero che fare vino è poesia, che ha un sapore chic e patinato, ma se la immagina una ragazza che ha appena finito il liceo alla fine degli anni ‘90 che si mette in testa di produrre vino? Quando inizi devi avere un sano pragmatismo, bisogna fare anche molti sacrifici».

Ha partecipato al Vinitaly, che ha riaperto dopo due anni di pandemia. Com’è andata?

«In Italia erano tre anni che non ci incontravamo con i clienti, non vedevamo l’ora, c’era molta attesa. Siamo stati in giro per altre città europee, da Zurigo a Londra, ma apprezzare la libertà nel nostro Paese è stato importante, quest’anno il Vinitaly è stato più selettivo, ha puntato sulla qualità, per la necessità di contingentamento con il rialzo del biglietto e l’obbligo di prenotazione. I colloqui sono stati più sereni, dagli importatori al semplice consumatore, che è l’anello ultimo della catena, quello che si siede al tavolo del ristorante e sceglie il vino».

La situazione di crisi legata alla guerra si percepisce?

«Purtroppo sì, il mercato dei compratori russi e ucraini è compromesso, ma si bilancia con una buona situazione in Usa, Canada e Nord Europa. Tra l’altro nel periodo in cui noi eravamo in rigoroso lockdown nel territorio asiatico i consumi di vino con servizio a domicilio erano molto alti, oggi però si sta verificando un blocco severo che compromette gli approvvigionamenti».

C’è un personaggio storico a cui le piace paragonarsi?

«Più volte ho pensato a Giovanna d’Arco. Lo so che fece una brutta fine, ma io sono una che sa guardarsi alla spalle. Per arrivare fin qui ho dovuto attraversare un percorso duro forse per questo mi viene in mente l’eroina francese».

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