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La crescita del Pil la pagano i lavoratori: in Italia gli stipendi meno rivalutati dal 1990

C’è un solo paese tra quelli che aderiscono all’Ocse (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) in cui gli stipendi sono diminuiti rispetto al 1990. Quel paese è l’Italia. Un arretramento del 2,9% che inchioda il mondo della politica e dell’economia alle proprie responsabilità. Il dato diventa particolarmente eloquente se si considera l’andamento del potere d’acquisto: come l’inflazione ha inciso sulla capacità di spesa dei lavoratori. L’ultimo studio dell’Istat, intitolato “Reddito e condizioni di vita”, prende in considerazione l’andamento degli stipendi netti: dal 2007 al 2020 è diminuita del 10 per cento. L’arretramento se da un lato ha favorito l’aumento della produzione, abbassando nei fatti il costo del lavoro e aumentando la competitività, dall’altro ha portato a un impoverimento delle famiglie. Si deve anche a questo l’aumento record del Pil italiano che nel 2022 ha doppiato quello di Francia e Germania. Un effetto benefico a breve termine che nel lungo, però, in assenza di interventi adeguati, rischia di trascinare verso il basso il ceto medio, già lungamente vessato nelle crisi che hanno preceduto la pandemia, in particolare quella del 2008. Nel 2009, d’altronde, il reddito disponibile delle famiglie in valori correnti è diminuito del 2,8% rispetto al 2008. È la riduzione più significativa dagli anni ’90, da quando in pratica l’Istat ha a disposizione le serie storiche di statistica.

Tutta colpa del cuneo fiscale?

I recenti dati non solo confermano il trend in calo degli stipendi ma anche il fatto che, negli ultimissimi anni, la tendenza ribassista si è addirittura accentuata. Nel 2020, in particolare, i redditi netti da lavoro dipendente sono calati del 5 per cento. Un decremento che, sempre stando ai numeri, non è legato al cuneo fiscale visto che, il valore medio del costo del lavoro, al lordo delle imposte e dei contributi sociali, è stato del 4,3 per cento inferiore rispetto all’anno precedente, mentre i contributi dei lavoratori sono rimasti sostanzialmente invariati e le imposte sul lavoro dipendente sono aumentate in media del 2%. La retribuzione netta a disposizione del lavoratore, nella media, è pari a 17.335 euro e costituisce poco più della metà del totale del costo del lavoro (54,5%). I dati mostrano una tendenza all’impoverimento dei lavoratori, schiacciati tra i mancati aumenti di reddito e una inflazione galoppante. La distribuzione dei redditi lordi individuali nel 2020 un aumento consistente rispetto al 2019 delle fasce più povere, quelle che non riescono a portare a casa più di 10.000 euro in un anno. In particolare si tratta di redditi da lavoro autonomo (41,7% nel 2020 rispetto al 35.5% nel 2019) e da lavoro dipendente (25% rispetto al 21,3% del 2019). Si riducono di conseguenza i redditi che si collocano nelle classi da 15.001 fino ai 70.000 euro. Per i redditi da pensione, esclusi dalla contrazione del mercato del lavoro indotta dalla pandemia, nel 2020 vi è un aumento per i redditi nelle classi superiori ai 15.000 euro lordi annui. Nel 2020, la metà dei redditi lordi individuali risulta compresa tra i 10.001 e i 30.000 euro annui, un quarto (il 25,5%) è sotto i 10.000 euro e il 20,8% risulta tra 30.001 e 70.000; solo nel 3,7% dei casi si superano i 70.000 euro annui.

Le coppie anziane senza figli pagano di più

È questa categoria ad avere il carico fiscale più elevato con una aliquota media del 22%. Nel 2020, inoltre, il prelievo fiscale a livello familiare sfiora il 19%, in lieve ribasso rispetto all’anno precedente (-0,4%). Il carico, si legge nel report dell’Istat “Reddito e condizioni di vita”, è mediamente più basso in corrispondenza delle famiglie monopercettore con minori: le aliquote vanno dall’11,4% per le coppie con tre o più figli e almeno un minore, al 13,7% per le famiglie monogenitore con uno o più minori».

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