Home Attualità Battuta d’arresto nel turismo salentino: «Da solo non produce crescita»

Battuta d’arresto nel turismo salentino: «Da solo non produce crescita»

«Nel Salento il turismo non produce crescita». L’economista Guglielmo Forges Davanzati, docente di Economia politica a UniSalento, ribalta la visione che ha permeato il Salento e in generale la politica regionale basata sulla scommessa turistica quale volano per l’economia locale.

Calo del turismo nel Salento e non solo visto che tutta la regione non sta vivendo una stagione al top. Quali sono le cause?

«Le cause sono due: in primo luogo l’aumento dell’incertezza dovuto alla pandemia, alle aspettative di inflazione e alla guerra russo-ucraina; in secondo luogo il calo dei redditi, in particolare dei lavoratori dipendenti del settore privato. Non a caso si osserva empiricamente un aumento dei debiti delle famiglie per pagarsi le vacanze. Queste due cause spiegano il rallentamento dei flussi turistici dei vacanzieri italiani. A fronte di ciò, come registrato da una recente ricerca del Sole 24 Ore, l’Italia nel suo complesso ha recuperato quasi interamente i livelli di afflusso turistico pre Covid. Dunque gli italiani si muovono meno, ma gli stranieri ritornano in Italia. A mio avviso il Salento, a differenza di Bari, sconta due principali problemi: innanzitutto la bassa qualità dell’offerta che a sua volta dipende, fondamentalmente, dal bassissimo investimento nella formazione dei dipendenti delle strutture turistiche che a sua volta è causato dall’alto tasso di disoccupazione giovanile; altro problema i prezzi elevati rispetto al target turistico medio basso determinato dalla convinzione che i flussi rimangano invariati in qualsiasi condizione. Sembra non soffrire decrementi il settore del turismo del lusso presente nel Salento».

Tenuto conto di questa analisi il modello di sviluppo del territorio calibrato sul turismo può ancora tenere?

«La crescita, a Lecce e in provincia, non è generata dal turismo, per tre ragioni: primo per l’ampia presenza del lavoro nero e dell’economia sommersa, in particolare per quanto riguarda gli affitti delle case vacanza; in secondo liuogo per i salari troppo bassi; in terzo luogo per la quasi totale assenza di personale specializzato. I primi due fattori fanno sì che l’occupazione nel settore non contribuisca ad accrescere la domanda interna. Il terzo fattore spiega la modesta crescita della produttività del lavoro».

Quindi?

«L’evidenza empirica riferita all’intera Puglia mostra che il rallentamento del tasso di crescita regionale si è avuto a partire dal decremento dell’incidenza del manifatturiero sul Pil regionale, con il contestuale aumento dell’incidenza del turismo sul Pil regionale».

Propone, quindi, di puntare sull’industria mettendo in secondo piano il turismo?

«I due settori sono e devono essere complementari. L’aumento degli investimenti nel manifatturiero, soprattutto se trainati dalla mano pubblica, – condizione necessaria perché il privato, in molte aree del Mezzogiorno non investesignificativamente – genera incrementi di produttività e tiene alta l’occupazione. L’elevato livello di occupazione stimola gli imprenditori del settore più labour intensive a tenere alti i salari, a regolarizzare le posizioni dei dipendenti, a spendere nella formazione. Ovviamente deve trattarsi di investimenti nei settori nei quali l’area ha già un vantaggio competitivo. Mi riferisco in particolare alla produzione e diffusione di energie rinnovabili, soprattutto eolico».

Quanto è realistico un investimento pubblico nel manifatturiero salentino?

«Può essere molto realistico, a condizione di cancellare le decontribuzioni, i crediti d’imposta, gli sgravi fiscali a favore dei privati che hanno dato risultati nulli per lo sviluppo locale e dirottare queste ingentissime risorse per la costituzione di imprese pubbliche in settori a elevata innovazione. Si tenga conto, al riguardo, che il Mezzogiorno ha una numerosità di dipendenti pubblici inferiore alla media nazionale, pur avendo un tasso di disoccupazione molto più alto e l’Italia ha un numero di dipendenti pubblici inferiore alla media europea».

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