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Erri De Luca: «Condizioni di vita incerte, per questo non si fanno figli. Vedi Taranto»

Erri De Luca, oltre ad essere un importante scrittore, è un attento osservatore delle dinamiche sociali. Spesso, guardando al Sud, ha saputo cogliere le ombre che ne impediscono il rilancio economico e sociale. Soprattutto quando ha volto lo sguardo, difendendola, sulla sua città natale: Napoli. Nella sua lente di ingrandimento, l’approfondimento uscito sulle pagine dell’Edicola del Sud, che racconta la denatalità e le possibili conseguenze sugli atenei pugliesi, fiore all’occhiello della Regione; ma che ha chiesto anche ai giovani una testimonianza “dal basso” sul perché si fanno sempre meno figli. E il desiderio di maternità e o paternità centrano poco o nulla.

Erri De Luca, anche qui, una volta “vivaio” della natalità del Paese, si fanno sempre meno figli. Cosa sta succedendo?
«Il calo di natalità è un dato omogeneo in Italia, che ha la popolazione con l’età media più alta del mondo dopo il Giappone. Contribuisco anche io, non sono padre. Incombe la più fitta incertezza sul futuro. Era così anche prima? Si, ma oggi l’incertezza è più consapevole, si basa su dati scientifici, economici, sull’intossicazione ambientale. Taranto sottoposta a stupro della salute da scarichi di siderurgia basta a spiegare gli effetti dell’incertezza su elementari condizioni di vita».
Tra 20 anni si prevede che il numero di giovani tra i 19 e i 25 anni da Roma in giù diminuirà del 16% (dati Istat). Perché, secondo lei, è ripresa in maniera massiccia l’emigrazione verso il Nord?
«È in atto uno sparpagliamento della gioventù dentro il bacino europeo e oltre. Qualche imbizzarrito dalle nostre parti parla di invasione, mentre il dato certo è che le partenze di italiani all’estero sono molte di più degli arrivi, e che l’Italia è un paese in via di evasione».
Tutto questo si tradurrà nei prossimi anni anche in una ulteriore perdita di iscritti per le università (-10% nel 2041 secondo uno studio dell’istituto Neodemos). Ieri, dalle pagine de L’Edicola del Sud, i rettori pugliesi e lucani hanno lanciato un appello perché, se non si invertirà la rotta, molti atenei saranno costretti a chiudere. Cosa si può fare?
«Una strategia presuppone uno stratega con un progetto. La nostra classe politica è così scadente da essere al di sotto di questo sospetto. Il meridione eccelle in alcune sue specialità economiche: il turismo grazie alla geografia, la cultura grazie al più vasto deposito di arte e archeologia del mondo, l’agroalimentare grazie alla varietà e alla valorizzazione di nuove competenze. Questi sono i beni sui quali investire».
Crede che ci sia la volontà, da parte del sistema economico e politico, di mantenere il Meridione in uno stato di subalternità e di fonte di manodopera a basso costo?
«La politica non dirige, segue in ritardo e con affanno gli sviluppi che la società produce. Ma esagero in ottimismo: non se ne accorge neanche. Amministra il suo quotidiano indaffarato a smistare incarichi e poltrone».
Basteranno le risorse europee del Pnrr ad invertire la rotta?
«Le diamo per incassate, ma il governo dovrà dimostrare all’Europa la destinazione dei fondi e ci sono molti incerti passaggi di verifica. Comunque a sanità e scuola spettano precedenze di spesa. Potremmo fare da soli senza obbedire a clausole di prestiti europei, se solo dimezzassimo il bilancio della Difesa, che invece aumenta imperterrito a ogni legge finanziaria».
Nel suo ultimo libro, “A grandezza naturale”, edito da Feltrinelli, fa riferimento alla teoria matematica dei nodi per raccontare il legame spezzato tra le generazioni. Vale anche per le famiglie meridionali, slegate a causa di chi parte per studiare o lavorare?
«La famiglia è il vero Pil dell’intero Paese. È l’ambito in cui si investe nella gioventù, si sostengono i più deboli, si supplisce a ogni deficit di servizi pubblici non forniti».
Cosa si sente di consigliare a un giovane universitario, prossimo ad affacciarsi al mondo del lavoro, che non vuole abbandonare la propria terra?
«Non ho frequentato università, ho impegnato la mia gioventù nei movimenti rivoluzionari del mondo nel decennio ‘70, ho fatto per venti anni l’operaio: che consigli possono venire da me? Ne propongo uno: non considerare umiliante nessun lavoro, perché la dignità sta dentro se stessi, non fuori».

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