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Il Mediterraneo giusto approdo della manovra

Seneca era un uomo saggio. Invitava a conformare le proprie scelte alla natura e a obbedire alla ragione. Ora se le scelte personali devono essere conformi alla natura, va da sé che quelle collettive non possono tradire la ragione. E la ragione nel governo della cosa pubblica invita a definire il quadro entro il quale il governo deve muoversi. Da qui la perentoria sentenza: “Non esiste vento favorevole per il marinaio che non sa dove andare”, come il filosofo soleva ripetere ai suoi allievi tra i quali Nerone che, nei cinque anni in cui si affidò agli insegnamenti del maestro, fu un buon imperatore. Dunque qual è la direzione in cui l’Italia deve orientare la sua prua in vista dell’imminente autunno? Si sa, l’autunno è la stagione della semina e da essa scaturirà il raccolto per l’anno a venire.

Sempre che si sia seminato bene. Ovviamente. Bisognerà metter mano al bilancio dello Stato. Decidere se blindarlo all’insegna del risparmio, come i nuovi criteri europei sul patto di stabilità impongono. C’è un debito pubblico da far tremare i polsi che va ridotto, anno dopo anno per i prossimi anni. E non è una scelta. Si tratta di un obbligo. C’è un prodotto nazionale lordo che tuttavia non cresce e che, asfittico com’è, lascia pochi spazi, anzi zero spazi, alle speranze, alle proiezioni, agli accantonamenti – chiamateli come volete – per pagare gli interessi sul debito, una cifra che si aggira sui cento miliardi di euro, o per finanziare bonus e oboli vari per i quali servono qualche, o alcune decine di miliardi, a seconda della platea dei percettori e della consistenza degli assegni unici o meno. E intanto cresce la povertà in Italia. Vera o presunta.

Con l’inflazione da guerra che falcidia il potere d’acquisto, gli interessi che rastrellano risparmi, i redditi che si riducono e i salari che diventano leggeri come l’aria a dispetto dell’occupazione che aumenta. Siamo ormai terzo mondo. C’è un sistema fiscale che scricchiola da tutte le parti, con il 30% degli italiani chiamati a sobbarcarsi il 70% dell’Irpef. E poi ci sono le evasioni e le elusioni che tutti quantificano da un centinaio di miliardi in su, su cui proprio non si riesce a mettere le mani. Ma non basta. Chi può sposta i suoi averi all’estero. Più o meno 200 miliardi, nonostante tutte le sanatorie e le immunità passate. E poi ci sono le caste, o se vi disturba il termine, le corporazioni destinatarie di protezioni più o meno palesi, come i concessionari dei lidi balneari che da decenni continuano a pagare una miseria per appropriarsi del bagnasciuga, delle spiagge e delle falesia di un paese tutto girato dal mare.

Un enorme salvadanaio vuoto contrariamente a tutte le attese o semplicemente contro ragione per riprendere ancora l’affermazione di Seneca. E ci sono le fiscalizzazioni degli oneri sociali sempre in affanno per giovani e meno giovani, donne, madri, Mezzogiorno oltre ai crediti di imposta per la famosa Zes unica del Mezzogiorno ormai scomparsa dai radar. I titolari di partite Iva che fan lievitare l’occupazione cercano di barcamenarsi. Gli onesti e quelli che non possono sfuggire alla tagliola del fisco, adesso anche la funzione di docente è diventata prestazione d’opera, sono gravati di una contribuzione pari al 24% mediamente per una pensione che probabilmente non vedranno mai ma che si assomma alla cosiddetta flat tax pari al 15%. Sommate fanno il 40%, più o meno. Senza fiscalizzazioni. Ovvio che chi può ne approfitta, al netto dei disonesti. Insomma la nave italiana naviga in un mare per nulla tranquillo. Anzi esso è percosso da venti impetuosi e che si scontrano uno con l’altro provocando onde furiose che potrebbero farlo addirittura naufragare. Il guaio è che non si vede la rotta. E nessun porto compare sui quadranti dei radar governativi.

Un guazzabuglio di esigenze, richieste impossibili condizionano la navigazione in un mare che già di suo è infido. Il 53% delle famiglie italiane paga solo il 6% dell’Irpef mentre dichiara un Isee che consente di accedere a bonus e assegni vari per molti miliardi. Non è proprio un buon punto di partenza. La soglia di povertà o quella dell’imbroglio intriso di lavoro nero si allarga paurosamente. E quel che è peggio la platea dei questuanti – pardon, di percettori – di bonus, condiziona il consenso elettorale in Italia. E allora? Provate voi a varare una manovra lacrime e sangue che poi, non di lacrime e sangue si tratterebbe, come dice il ministro Giorgetti, ma di ragionevole disboscamento della selva di sussidi e bonus, di eliminazione degli sprechi, mai attuati? E torna di nuovo la ragione cui Seneca raccomandava di affidarsi. Sarà la volta buona? Chissà. C’è finalmente una giovane ragioniera dello Stato a capo della struttura tecnica delle finanze e le donne hanno una dimestichezza con la ragione sconosciuta agli uomini. Fa ben sperare.

D’altronde non abbiamo riserve a cui attingere. Ormai l’Italia si è venduta tutto. Non è che può continuare con le privatizzazioni all’infinito. Ma mettiamo che Giorgetti, utilizzando la sponda europea e le regole del patto di stabilità, riesca a far valere la sua idea di revisione della spesa: rimane il problema della direzione, visione, porto con cui il nocchiero deve misurarsi. E questo è il guaio più grosso. Perché intanto non solo non sappiamo dove va ma abbiamo le idee confuse anche su come è composto il nostro sistema produttivo. Fra il 2014 e 2022, la Banca d’Italia ci dice che gli investimenti diretti in partecipazioni estere delle imprese italiane sono cresciuti del 35,7%. Ma gli investimenti esteri verso l’Italia, cioè le partecipazioni di aziende straniere in quelle italiane, sono saliti di ben il 74,8%. Un bel rebus.

Insomma le nostre imprese investono (poco) all’estero ma, soprattutto, sono comprate dall’estero (molto). Avete presente la vicenda di Fiat-Stellantis? E la vicenda della Magneti Marelli? E quella della Pirelli, della Tim, e di tutte le altre a seguire? Un tempo l’Italia era famosa per il suo sistema di piccole e medie imprese. Gli addetti ai lavori si industriavano a evidenziarne i processi e le caratteristiche, le imprese-gazzelle, i gladiatori e via dicendo. All’estero ci chiamavano per spiegare il miracolo. Poi finì tutto con il trasferimento delle produzioni grazie al villaggio globale che allargava i confini dove i costi si assottigliavano di più. E mentre noi andavamo all’estero e lasciavamo sfiorire i distretti, deperire e svanire le pmi, dall’estero venivano e si compravano tutto, ma proprio tutto. Ovviamente le grandi imprese che facevano il mercato e che alimentavano le pmi. Adesso non ci è rimasto niente, o quasi, e quel che resta dell’Eni, delle Poste e poco altro, si pensa di venderlo per parare i guai, come si dice, ossia finanziare i bonus.

Senza dimenticare il Mezzogiorno, anche quello derubricato a fastidioso incidente, buono per attrarre fondi dall’Europa per poi spenderli al Nord che li sa spendere, dicono, a differenza del Sud che spreca. E intanto lo spopolamento continua. I ragazzi continuano ad andarsene, i territori vengono invasi da selve di pale eoliche, in terra e in mare e nelle campagne proliferano gli impianti fotovoltaici in ossequio alla fame di energia dell’Europa e del nostro settentrione. Tanto con l’autonomia differenziata tutto andrà a posto e a Sud se ne faranno una ragione. E intanto monta finalmente la consapevolezza dei meridionali e avanza, vento in poppa, il referendum. «Sarà Nord contro Sud», tuona l’ineffabile Calderoli, ministro dei falò.

Il Pnrr porta soldi nelle casse dello stato centrale e li sposta da quelle parti, quando li sposta, perché gli obiettivi concreti fatti di cantieri languono ovunque. Intanto alla fine resteranno i debiti del Pnrr da rimborsare e quelli saranno equamente ripartiti tra Nord e Sud, ossia scaricati sullo Stato centrale, vale a dire tutti noi. “Non esiste vento favorevole per il marinaio che non sa dove andare”. Finora c’era il porto sicuro della Germania. L’industria tedesca tirava e tutto andava bene per il sistema Italia abbarbicato a Nord. Ma adesso sembra che anche la Germania mostri la corda. Si parla sempre più a voce chiara di crisi. La Cina viaggia per conto suo. E allora? Qual é il porto dove dirigersi? Il mare del Nord? Rotterdam-Anversa-Amburgo con le rispettive economie? Ma lì noi saremo perdenti. Anche se Lombardo-Veneto, Emilia e granducato di Toscana si illudono di essere locomotive, in realtà sono vagoni che saranno sganciati al momento giusto. Il Mediterraneo? Sì, vien voglia di dire. È quello il nostro orizzonte. Ma l’Italia non sembra interessata, come non lo è l’Europa. Eppure è quella la direzione. Certo, va resettata per intero la politica o se più vi aggrada disegnata ex novo la visione politica. Non vi sono alternative al “Continente Mediterraneo”.

Certo, bisognerà dire basta alle guerre e anche alle prepotenze in Africa e Medio Oriente e ridare prospettive a un miliardo di persone che possono vivere, cooperare e svilupparsi in pace. I nuovi scenari geo-politici ed economici mondiali non lasciano dubbi in proposito. E allora puntiamo la prua verso il Mediterraneo e finalmente i venti, anche se tempestosi, potremmo governarli, perché il nocchiero saprà dove deve andare.

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