Home Editoriali Lavoro e salari: i nodi da sciogliere con la manovra

Lavoro e salari: i nodi da sciogliere con la manovra

È un sentiero stretto, quello che condurrà il governo Meloni all’approvazione della prossima legge di bilancio. Non solo e non tanto per le scarse risorse a disposizione, ma soprattutto per la necessità di ridurre un debito pubblico che ormai sfiora i 3mila miliardi di euro. Questo contesto critico, però, potrebbe offrire un’enorme occasione all’Italia e, in particolare, al Sud. E cioè quella di affrontare alcune debolezze strutturali che da decenni frenano la crescita del Paese, a cominciare dalle sue aree più depresse.

La Commissione europea ha indicato all’Italia un percorso di rientro in quattro anni. Il nostro Paese, tuttavia, può proporre una sorta di “contro-piano” che preveda il rientro in sette anni, purché accompagnato da riforme e investimenti capaci di aumentare il tasso di crescita potenziale del pil, andando così a ridurre il rapporto del debito e del deficit sullo stesso pil. Come fare, dunque? Il primo strumento dovrebbe essere un piano per l’occupazione delle donne e dei giovani che, come l’ex ministro Enrico Giovannini ha opportunamente osservato in un’intervista resa ieri a “La Stampa”, l’Unione europea giudicherebbe certamente in modo positivo.

Sotto il primo aspetto, un aumento del 10% della forza lavoro attraverso l’incremento dell’occupazione femminile, farebbe impennare il pil nella stessa misura nel lungo periodo, soprattutto al Sud. Ma per centrare l’obiettivo bisogna eliminare la cosiddetta “child penalty” nei tassi di ingresso e uscita dal mondo del lavoro in modo tale da far lievitare il tasso di occupazione femminile del 6,5% entro il 2040. Il che equivale ad accelerare sulla diffusione di nidi, servizi e scuole per l’infanzia (visto che all’Italia mancano ancora tre punti per conseguire gli obiettivi concordati nel Consiglio europeo di Barcellona del 2002) e a cambiare il sistema di tassazione e dei trasferimenti (che, prevedendo crediti d’imposta per il coniuge a carico, scoraggia l’occupazione delle donne che di solito sono i membri della famiglia con prospettive retributive peggiori).

Sotto il secondo aspetto, sono indispensabili politiche che determinino un aumento dei salari. Oggi, infatti, l’Italia non attrae lavoratori qualificati dal resto d’Europa e dal mondo perché offre salari bassi e riconosce poco le professionalità. In un simile contesto è inevitabile che i giovani fuggano all’estero, che nel Paese ci siano un milione e 800mila disoccupati di cui 750mila under 30 e che il tasso di occupazione, nonostante gli incoraggianti risultati registrati negli ultimi mesi, sia ancora al 62% e quindi tra i più bassi in Europa.

Per aumentare i salari è indispensabile tagliare il cuneo fiscale contributivo, ma soprattutto va aumentata la produttività delle piccole e medie imprese. Ma serve cambiare la specializzazione produttiva del Paese, superare le modeste dimensioni delle aziende che non consentono a queste ultime di competere con i colossi internazionali e adottare tecnologie più efficienti, ma anche rafforzare la pubblica amministrazione ed estendere la contrattazione collettiva rinnovando gli accordi scaduti.

Tutti questi temi devono tornare al più presto al centro dell’agenda del governo Meloni. Che, da parte sua, farebbe bene ad avviare un dibattito serio e serrato con le parti sociali e con la società civile sulle strategie da adottare per superare le debolezze strutturali di un sistema economico-sociale asfittico. In gioco c’è il futuro del Paese, soprattutto del Sud.

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