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Bari, il processo dura 27 anni e il boss fa causa allo Stato

Aveva poco più di 27 anni quando la Direzione distrettuale antimafia di Bari lo accusò di essere un narcotrafficante. Oggi, dopo essere stato assolto dalla Cassazione, Giuseppe Ranieri di anni ne ha il doppio e fa causa allo Stato italiano trascinandolo davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu). Il motivo? Troppi 27 anni per giungere a una sentenza irrevocabile.

La vicenda risale al 1995-1996, epoca in cui il boss Ranieri, meglio conosciuto come “Very Good”, avrebbe fatto parte di un gruppo criminale dedito all’importazione di eroina e cocaina in Italia e alla successiva vendita su tutto il territorio nazionale. Non solo: Ranieri, secondo i pm della Dda di Bari, avrebbe promosso, organizzato, diretto e finanziato in prima persona le attività dell’organizzazione. Al 2002 risale invece l’apertura del processo caratterizzato – come si legge nel ricorso alla Cedu firmato dagli avvocati Massimo Roberto Chiusolo e Attilio Altieri – «da un elevato e ingiustificato numero di rinvii» dovuti a difetti di notifica, mancati trasferimenti degli imputati detenuti in carcere e altri inadempimenti di cui Ranieri e i suoi presunti sodali non hanno alcuna responsabilità. Risultato: “Very Good” viene condannato in primo grado solo nel maggio del 2013, cioè undici anni più tardi, alla pena di 13 anni di reclusione.

Dopo il deposito delle motivazioni Ranieri, che per quella vicenda si è sempre proclamato innocente, decide di fare appello. Siamo nel 2013, ma la prima udienza del processo di secondo grado viene fissata soltanto per gennaio 2017, cioè di lì a tre anni e mezzo. Il giudizio va avanti e si conclude a settembre 2021, quando la Corte d’appello riduce la pena per Ranieri a nove anni di carcere. A inizio 2022, poi, i legali di “Very Good” si rivolgono alla Cassazione sostenendo la nullità della sentenza di appello ma – particolare importante – senza mai eccepire la prescrizione dei reati: Ranieri si ritiene innocente e punta a essere completamente scagionato. Ciononostante, a gennaio 2023, i giudici romani annullano senza rinvio la condanna riportata da Ranieri in appello: la sentenza viene depositata due mesi dopo, a marzo.

Di qui la decisione di trascinare lo Stato italiano davanti alla Cedu. Secondo i legali di Ranieri, quest’ultimo non sarebbe stato giudicato in tempi ragionevoli a causa di «inadempimenti delle cancellerie» e «inefficiente organizzazione del carico delle udienze». Così il processo di primo grado è durato undici anni e la sentenza di appello è arrivata a otto anni di distanza dalla prima: un’attesa che ha «gravemente pregiudicato la vita personale e sociale di un soggetto che ha cercato di condurre un’esistenza “normale”», ma che le pendenze giudiziarie «hanno segnato sotto l’aspetto psicologico, nella vita sociale, nell’ambito lavorativo e finanche in quello familiare».

Ma c’è anche un altro motivo che ha spinto Ranieri a rivolgersi alla Cedu: il boss non aveva mai chiesto che la Cassazione dichiarasse la prescrizione dei reati che gli venivano contestati, essendo intenzionato a dimostrare la propria totale estraneità al traffico di droga; i giudici, invece, hanno optato per quella formula senza prima interpellare l’imputato. Insomma, il processo è durato troppo e a Ranieri non è stata data la possibilità di dimostrare la propria totale innocenza: due aspetti di cui lo Stato italiano dovrà rispondere.

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