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Il nuovo libro di Luciano Canfora: «Rancore e razzismo ci dicono che il fascismo è ancora vivo»

Il fascismo non è morto con Benito Mussolini nel 1945 né con Giorgio Almirante nel 1988. È sopravvissuto, si è trasformato e si è diffuso, mantenendo però intatto quell’inconfondibile nucleo di rancore, razzismo, suprematismo e nazionalismo che ancora oggi si manifesta in Italia così come in altre parti del mondo. È la tesi che Luciano Canfora, professore emerito presso l’università “Aldo Moro” di Bari, sostiene in “Il fascismo non è mai morto”, da ieri in libreria.

Per il filologo e storico di fama mondiale, la pubblicazione del volume è anche l’occasione per analizzare le politiche del governo di Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia che ha raccolto l’eredità di un partito neofascista come il Movimento sociale italiano e poi di Alleanza nazionale: «Il rafforzamento dei poteri del primo ministro? Un tentativo di capovolgere l’assetto costituzionale che preoccupa non poco».

Professore, perché sostiene che il fascismo sia sopravvissuto a Mussolini, morto ormai 79 anni fa?

«Per la verità, ancora più netto di me fu Umberto Eco che, nel 1995, parlò di “fascismo eterno”. In realtà, nella storia quasi nulla è eterno. E di certi fenomeni spesso non sopravvivono le esteriorità, ma atteggiamenti mentali profondi come suprematismo, razzismo, rancore nei confronti del sindacalismo e degli operai che rivendicano i propri diritti, un nazionalismo eccessivo che impone determinate politiche sociali solo per gli italiani e non anche per gli stranieri. Di continuo vediamo affiorare simili manifestazioni che confermano la tesi di Paolo Mieli, secondo il quale il fascismo è «un virus mutevole» che si trasforma e si diffonde ovunque, pur facendo capo a quel nucleo di atteggiamenti mentali di cui ho appena parlato».

Molti sostengono che Giorgia Meloni sia fascista. Ma come può una donna nata nel 1978, dunque in piena epoca repubblicana, essere accusata di compromissioni con certe ideologie antidemocratiche?

«Meloni è impegnata in politica fin dall’adolescenza, avendo militato nelle formazioni giovanili del Movimento sociale italiano e poi di Alleanza nazionale. Questa militanza conferma una opzione politica di partenza, non c’è dubbio. Ma nessuno rimane uguale a se stesso, come sosteneva Eraclito: nessuno può entrare due volte nello stesso fiume perché l’acqua che l’ha bagnato la prima volta, nel frattempo, va via seguendo la corrente».

Infatti Meloni sta tentando di liberarsi delle scorie del fascismo e di trasformare Fratelli d’Italia in un partito conservatore. Prova ne sono la condanna delle leggi razziali, ribadita ieri in occasione del giorno della memoria, e i riferimenti culturali non più a pensatori come Julius Evola ma a Roger Scruton. Questo disegno ha una prospettiva, secondo lei?

«La prospettiva c’è, ma Meloni deve fare i conti con una minoranza combattiva che continua a rimarcare la continuità col fascismo. Quando, il 28 ottobre 2022, un gruppo di nostalgici si riunì a Predappio, città natale di Mussolini, per celebrare il centenario della marcia su Roma, Meloni parlò di «manifestazione politicamente distante». Si guardò bene dal definire sciagurate quelle persone che, per tutta risposta, rivendicarono il fatto di averla sostenuta e di aver contribuito al suo percorso verso Palazzo Chigi. Una situazione simile si è riproposta pochi giorni fa con la commemorazione dei fatti di Acca Larentia. Meloni è giovane e intelligente, non come Almirante che parlava del fascismo come «traguardo» o di «repubblica bastarda». Ma certi gruppi di nostalgici sono un ingombro lungo la strada che la premier sta cercando di percorrere anche in Europa: non può svincolarsi, ma deve tenerli a bada».

Nelle politiche del governo Meloni ravvisa tracce di fascismo più o meno evidenti?

Il 99% delle strategie dei governi è predeterminato da vincoli fortissimi come quelli con la Nato, per quanto riguarda la politica estera, e dalla Banca centrale europea, per quanto riguarda la politica economica. Qui Meloni o chiunque altro non può incidere molto. Ma poi c’è la questione degli ordinamenti costituzionali, per i quali Nato e Bce non impartiscono ordini e la soggettività di ciascun governo si manifesta pienamente. Su questo fronte il governo Meloni punta a rafforzare il potere esecutivo e a depotenziare il legislativo, sebbene la Costituzione sancisca l’esatto contrario. Ci troviamo davanti a un tentativo di capovolgere l’assetto dettato dalla Carta e di modificare lo spirito della stessa Carta che personalmente trovo preoccupante».

Anche l’autonomia differenziata, appena approvata dal Senato, la preoccupa tanto?

«Certo, ma quello non è fascismo. È bossismo, cioè il frutto delle teorie di Gianfranco Miglio e delle battaglie di Umberto Bossi e di quanti hanno lottato per l’indipendenza della Padania. Si è passati dall’idea di fantomatiche secessioni del Nord e improbabili colpi di Stato al disegno di legge firmato da Roberto Calderoli. E questa trovata, nel corso del tempo, ha trovato favore in ambienti insospettabili: penso al famoso incontro tra Stefano Bonaccini, presidente dell’Emilia-Romagna e del Pd, e Luca Zaia, leghista e presidente del Veneto, entrambi ottimi amministratori che però non esitano ad avvantaggiare le proprie regioni a discapito delle altre. Qui non c’entra il fascismo, che sosteneva forme centralizzate di potere, ma l’autonomia differenziata preoccupa anche perché è la contropartita che una forza politica rende all’altra in cambio del cosiddetto premierato».

Come ci si vaccina da certe forme di fascismo e anche da un certo antifascismo spesso ugualmente intollerante?

«Studiando la storia. Se a scuola si desse maggiore spazio agli avvenimenti che hanno segnato il 20esimo secolo, quella diventerebbe la forma più interessante ed efficace di vaccino».

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