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Medici aggrediti a Foggia, la testimonianza: «Non è più vita, i nemici non siamo noi»

Era in servizio al policlinico di Foggia, mercoledì scorso, la dottoressa Flaminia Mangano che quella notte era di guardia e, come lei stessa racconta in un lungo post pubblicato su Facebook, ha refertato gli esami dei colleghi aggrediti.

«Dentro di me la rabbia è montata subito» e per questo la dottoressa Mangano ha aspettato «qualche giorno a scrivere della triste vicenda».

Quanto accaduto quella sera è stato argomento di discussione sui tg, sui social, sui giornali e persino «in fila alla cassa del supermercato». Poi la lettera della sorella di Natascha, arrivata in ospedale a giugno a seguito di un gravissimo incidente stradale: «Una lettera che trasuda disperazione e rancore, ma tant’è, lei ha perso una sorella. Scrive il suo dolore. Chi di noi potrebbe non comprenderla?», si chiede la dottoressa, affermando però che «tra quelle righe c’è il seme di un odio nefasto, che ho visto trasudare da più commenti, da più parti, da terze voci».

La morte di Natascha

La dottoressa ricostruisce la storia della 23enne dal momento in cui è arrivata in ospedale: «Era stata presa in carico dall’équipe dei nostri rianimatori in condizioni gravissime, sottoposta alle cure di professionisti altamente specializzati, ed era stato grazie a loro se si era salvata da un destino infausto già all’esordio. Dopo vicende cliniche nelle quali, per ovvi motivi, non è il caso di addentrarsi in questa sede, era stata sottoposta a un intervento salvavita di neurochirurgia e poi trasferita in un reparto di Riabilitazione, nel quale – afferma Mangano -, con la sua volontà certo ma anche grazie ai protocolli e alle cure del caso, era riuscita a rimettersi in piedi. Le era stata salvata la vita. Dalla buona sanità. Dalla sanità che fa il suo lavoro notte e giorno, quella di cui non si parla».

Natascha, prosegue la professionista, «era in attesa di un trasferimento in una struttura specializzata per subire, in elezione, un intervento che qui, nel nostro policlinico, non viene effettuato di routine. Perché si, udite udite, la verità è questa. Lo scibile medico è sconfinato e, invece, le nostre risorse umane di medici sono limitate. L’intervento era da eseguire in un centro di riferimento per questo tipo di chirurgia, era un intervento per il quale nel nostro policlinico non era stata maturata una sufficiente esperienza. Le condizioni delle ragazze erano stabili, come scrive la sorella stessa. I parametri vitali buoni. Poi accade l’imprevisto. E già. L’imprevisto che, e qui di nuovo ascoltate bene vi prego, fa tremare le vene ai polsi anche ai medici. La necessità di intervenire d’urgenza, per scongiurare il peggio».

Mangano racconta della disperazione di quei momenti, anche tra il personale medico, che tuttavia è intervenuto con grande professionalità: «Datemi retta – scrive -, nessuno, nessuno al mondo, si sarebbe voluto trovare al posto di quei colleghi. La lotta tra la vita e la morte, il filo sottile su cui ci si gioca tutto. E allora mi immagino la loro adrenalina in sala, il fermento del personale tutto, le grida, le imprecazioni, lo sgomento. La paura. Si, la paura. Perché la morte è spaventosa, è una possibilità che non vogliamo contemplare, è una battaglia spesso impari».

«Non è più vita la nostra in ospedale»

Ma è una battaglia, aggiunge, che negli ospedali si combatte tutti i giorni: «Questo è il punto. Quella battaglia è la vostra una volta nella vita, ma è la nostra ogni giorno. E qualsiasi cosa vi faccia comodo pensare, i nemici non siamo noi medici».

Citando le parole della sorella di Natascha, Mangano sottolinea che «venire in ospedale “a fare la guerra peggio di Gomorra“, come leggo in quella lettera, deve essere un’opzione non ammissibile. Non può essere giustificata. Neanche dal dolore più cupo, dalla disperazione più sorda. Non in un paese civile, quale dobbiamo fare in modo che l’Italia resti. Perché la spedizione punitiva che colpisce il sistema sanitario nazionale è un gesto animalesco e pericoloso».

Poi l’amarezza di episodi che, purtroppo si ripetono: «Una signora – racconta infine la dottoressa -, lamentandosi della presunta attesa (di qualche minuto) per un esame di risonanza magnetica al figlioletto, in perfetta buona salute (grazie a Dio, eh, e non grazie a me) mi ha detto, cavalcando vergognosamente l’onda dei tragici eventi dei giorni scorsi… “Fanno bene poi, quando vi menano“. “Fanno bene”. Non è più vita la nostra in ospedale, credetemi. Siamo stanchi. Siamo demotivati. Siamo pochi. Non possiamo più continuare così. Servono misure efficaci. Serve fermarci a riflettere. Serve adesso. Siamo ad un punto di non ritorno, la sanità pubblica è al collasso. La situazione è già sfuggita di mano», conclude Flaminia Mangano.

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