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Verso l’8 marzo, a Taranto focus sulle brigantesse del Sud che combattevano per un’Italia unita

Si avvicina l’8 marzo e ogni anno sono tanti gli eventi dedicati alle donne e ai loro diritti prima negati e poi conquistati. “La condizione della donna del Sud prima e dopo l’Unità d’Italia”, è il titolo di un incontro che si terrà il prossimo giovedì 7 marzo alle ore 17 nella sala convegni dell’ex ospedale vecchio, in Via Santissima Annunziata a Taranto.

A parlare della condizione delle donne sarà Fiorenza Taricone, professoressa ordinaria di “Pensiero politico e questione femminile” all’Università di Cassino e Lazio Meridionale nell’iniziativa organizzata dal comitato di Taranto dell’istituto per la storia del Risorgimento italiano. Un tema sempre attuale, quello della condizione delle donne, i cui interrogativi affondano le loro radici già nel Risorgimento quando molte donne lasciarono il tetto coniugale o, meglio, il loro ruolo di angelo del focolare per seguire la battaglia per un’Italia politicamente unita.

Durante il Risorgimento, diverse donne sposarono la causa di un’Italia unita. Basti pensare ad Anita Garibaldi, o a Rosalia Montmasson, moglie di Francesco Crispi, unica donna sul piroscafo Lombardo della spedizione dei Mille, come venivano viste, nella cultura dell’epoca, queste donne?

«Tutte le donne o anche ragazze che hanno deviato dalle regole cogenti riservate al sesso femminile hanno pagato un prezzo. Anita Garibaldi è stata in parte preservata dall’alone mitico di Giuseppe, e anche dal fatto che era sostanzialmente una straniera, essendo nata a Santa Catarina, in Brasile. Comunque, la famiglia di Garibaldi non ha manifestato una comprensione profonda per le sue scelte di vita, per esempio non era d’accordo che seguisse da combattente il marito nella Repubblica romana, a seguito della quale, in fuga, Anita trovò la morte. Per Rosalia Montmasson, le cose andarono molto peggio. Dopo aver vissuto e anche mantenuto l’esule Crispi con il lavoro di domestica e lavandaia, fu messa da parte dall’ormai Deputato che sposò una donna di rango».

Lei in un suo elaborato parla di “brigantesse.” Questa terminologia tornata nel linguaggio contemporaneo veniva già utilizzata durante il Risorgimento? Sembra quasi curioso che all’epoca ci fosse una distinzione di genere.

«Il brigantaggio si divide in due periodi, quello preunitario e post-unitario. Le brigantesse erano chiamate in modo plurale, ma non erano tutte uguali, anche nelle motivazioni; alcune seguivano amanti e mariti, altre avevano subito ingiustizie e volevano vendicarsi, altre ancora erano rimaste incinta e quindi seguivano la sorte dei compagni. Purtroppo, dato il tasso di analfabetismo, non è possibile avere dalle loro voci una testimonianza diretta e autobiografica, questo distorce molto il giudizio a posteriori».

Diversi sono gli esempi di donne che hanno lasciato la loro condizione per portare avanti una battaglia per i loro diritti. Molto spesso questa stessa battaglia è stata al centro della politica di uomini illustri come Salvatore Morelli. C’è una figura femminile che più di tutte l’ha colpita?

«Le personagge meritevoli di essere ricordate molto più di quanto non sia stato fatto, sono numerose. Senz’altro vanno ricordate Anna Kuliscioff, la teorica del socialismo italiano, che ha portato nel Partito socialista molte delle battaglie dell’emancipazionismo italiano;ma anche Anna Maria Mozzoni, che, con S. Morelli ha avuto il coraggio, fuori dal parlamento, di opporsi alla regolamentazione della prostituzione. Ma, ripeto, l’elenco potrebbe essere molto lungo».

Qual era la condizione delle donne all’epoca? Perché queste donne si sono sentite partecipative di un’epoca storica come il Risorgimento?

«Le patriote che hanno lottato per l’Italia unita hanno intravisto finalmente la possibilità di far parte di una patria libera e indipendente; purtroppo, sono rimaste molto deluse dal Codice civile italiano, entrato in vigore nel 1865, che rese le donne, loro per prime, e ancora di più le generazioni successive, delle straniere in patria, sostanzialmente prive dei diritti di cittadinanza. Il diritto di voto non era neanche menzionato e del resto, era riconosciuto a una minoranza di uomini, ma le donne non potevano studiare, laurearsi, accedere alle libere professioni, esercitare liberamente un diritto di proprietà, e soprattutto erano soggette in famiglia alla patria potestas, dipendenti in tutto dalla autorizzazione maritale».

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