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Un patto tra politica e giustizia

L’Edicola del Sud ha riservato, in questi giorni, grande spazio alle principali problematiche che affliggono la giustizia. Temi che dovrebbero interessare l’opinione pubblica ma che, nei programmi elettorali, sono appena sfiorati senza che sia indicata la strada per un’effettiva soluzione. Il più mortificante, per un Paese civile, è il numero esorbitante di errori giudiziari e di ingiuste detenzioni, unitamente alle condizioni disumane in cui vivono i detenuti nei nostri istituti di pena. Centodiciasette decessi, tra questi sessantadue suicidi, dall’inizio dell’anno, è un numero impressionante che rappresenta un’emergenza che non può essere sottovalutata. Sono morti di Stato, persone affidate a un’istituzione pubblica che non è in grado di rispettare le norme vigenti e abbandona i detenuti – condannati o in attesa di giudizio – a un atroce destino. Alle morti sopra indicate, infatti, si aggiungono centinaia di atti di autolesionismo. Nelle dichiarazioni dei leader è un argomento che non compare e, se vi è una domanda in merito, la risposta è quasi sempre generica e non contiene soluzioni effettive. Da sempre l’esecuzione penale è un tema che non viene affrontato apertamente in campagna elettorale. Il centrodestra – nel quale il principale partito, Fratelli d’Italia, vuole la riforma costituzionale dell’articolo 27 in quanto la pena non deve solo rieducare, ma anche garantire la sicurezza dei cittadini – mostra di non aver fatto propri gli ideali che ispirarono i Padri Costituenti. Invocare il principio di certezza della pena, affermando che una condanna a pena detentiva deve essere scontata interamente, senza il ricorso a misure alternative, è un grossolano errore giuridico.

La reclusione in carcere, infatti, non è l’unica pena prevista dal nostro ordinamento. Lo sono anche le misure alternative, come gli arresti domiciliari e l’affidamento in prova ai servizi sociali, che pur definite “misure”, sono comunque una modalità di esecuzione della pena e costituiscono una restrizione della libertà. Inoltre se certezza s’invoca, questa dovrebbe riguardare non solo l’aspetto quantitativo, ma anche quello qualitativo. Il detenuto ha il diritto di pretendere che la condanna sia scontata in conformità di quanto stabilito dalle norme in materia. Da parte sua, il centrosinistra afferma che va sconfitta la cultura carcerocentrica e che bisogna finalmente realizzare la riforma dell’ordinamento penitenziario, per consentire condizioni di detenzione umane e dignitose. Una risibile affermazione, guardando al passato. Il Partito democratico, con il suo ministro della Giustizia, all’indomani della condanna dell’Italia da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo, l’8 gennaio 2013, per trattamenti disumani e degradanti riservati ai detenuti, istituì gli Stati generali dell’esecuzione penale. Durarono un anno e furono seguiti da tre Commissioni ministeriali per la riforma dell’ordinamento penitenziario, che lavorarono per un altro anno. La riforma era pronta, ma tutto si fermò perché di lì a poco, il 4 marzo 2018, vi sarebbero state le elezioni. E non sembrò utile portare a casa quel risultato che oggi, invece, s’invoca. Un atteggiamento schizofrenico che può sfuggire all’elettore disattento su questi temi, ma che appare surreale agli addetti ai lavori. Politica e giustizia non vanno d’accordo e lo si vede costantemente non solo negli istituti di pena, ma quotidianamente nei nostri tribunali.

Riccardo Polidoro è avvocato penalista, responsabile dell’Osservatorio Carcere dell’Unione delle Camere penali italiane

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