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Palazzo Chigi e una sfida epocale

Le riduzioni dei tributi possono manifestarsi in forme variegate, tra le quali ricorderemo i parziali abbattimenti della base imponibile, la riduzione delle aliquote d’imposta, l’applicazione di aliquote proporzionali in luogo di quelle progressive, il riconoscimento di deduzioni e detrazioni di imposta. Il Governo si appresta a varare la riforma fiscale (col veicolo della legge delega) e, sia dalle dichiarazioni dirette del viceministro Leo che dalle indiscrezioni delle fonti d’informazione, il piatto forte sarà rappresentato dalla riduzione degli scaglioni delle aliquote Irpef da quattro a tre. Riduzione che capiremo meglio come potrà svilupparsi non certo nell’immediato ma nel corso degli anni, in quanto sarà necessario trovare le opportune coperture.

Un primo riferimento sarà indubbiamente costituito dalla riduzione delle tax expenditures (i costi fiscali) in continuo aumento con un margine stimato di circa cinque miliardi. La riforma, quindi, si muoverà nel solco del recupero del gettito fiscale operando sia sul lato della tassazione delle persone fisiche che dell’accertamento (per me Stato il tuo reddito è pari a x: se per due anni dichiarerai questo reddito, non sarai soggetto ad accertamenti e tutto quello che guadagnerai in più lo metterai in tasca) sulla base di una compliance molto concreta.

La riduzione delle aliquote mantiene in vita, comunque, il principio di progressività cui è ispirato il nostro sistema e che nel corso del tempo si è molto modificato in meglio. Si pensi che all’epoca della riforma del 1973 (istituzione dell’Irpef) l’aliquota massima era del 62% rispetto all’attuale 43%. L’aliquota minima oggi è del 23%, rispetto al 12% del 1973. Se andiamo a comparare i dati in assoluto, l’escursione attuale tra aliquota minima e massima è di 20 punti mentre al 1973 era di 50 punti. Possiamo, quindi, registrare un sensibile appiattimento della scala della progressività che tende a contenere le differenze tra le categorie sociali in termini di imposizione sul reddito.

La progressività delle aliquote è un meccanismo diretto a favorire l’eguaglianza sostanziale, secondo il principio contenuto nell’articolo 3, comma 2 della Costituzione, e a eliminare gli ostacoli che impediscono il dispiegarsi della personalità umana. Il criterio della progressività è, quindi, entrato nell’alveo costituzionale, segnatamente nell’articolo 53 (“Il sistema tributario è ispirato a criteri di progressività”), ispirato alla logica delle pari opportunità. Ciò va detto non senza ricordare che la progressività non è una regola precettiva che condiziona il legislatore, ma si pone all’interno di un programma generale e indeterminato di politica fiscale. Possiamo solo qui dire che, mentre l’imposta proporzionale risponde a un concetto di eguaglianza formale, l’imposta progressiva produce un depauperamento più che proporzionale tra i soggetti economicamente forti e un depauperamento meno che proporzionale tra i soggetti più poveri.

Vedremo come si orienterà il legislatore della delega anche in ordine al sistema delle detrazioni d’imposta e delle deduzioni della base imponibile, che sono gli altri veicoli attraverso i quali si determina un decremento maggiore per i redditi più bassi.

Prova dell’attenuazione del criterio progressivo è l’ingresso nel nostro sistema interno di una miriade di imposte sostitutive che sfuggono alla progressività nonché del sistema di tassazione dell’Ires, improntato alla proporzionalità (tassazione con l’aliquota odierna del 24%), o delle imposte di successione, per non parlare di quella parte dell’ordinamento che disciplina le operazioni straordinarie, sottratte del tutto all’imposizione. Aspettiamo all’opera il Governo e rimandiamo il giudizio definitivo quando sarà servito il menù.

Antonio Damascelli è presidente dell’Unione nazionale delle Camere degli avvocati tributaristi

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