Home Editoriali Quella fame di vita che risveglia la nostra periferia

Quella fame di vita che risveglia la nostra periferia

Da tempo l’eco della storia, anche quella minoris con la lettera minuscola all’ennesima potenza, non raggiunge le periferie, la mia periferia. Le abito, queste periferie, senza indulgere alla poesia ovvero alla rabbia; il sentimento è sciapito.

Amo Arminio, ma qui non lo canto, non lo si canta. Qui cantano Celestino e i bassi sono quelli che i woofer sparano a intensità tale da far tremare le tapparelle; di Carmelo Zappulla manco l’ombra. Resiste il Bar Impero, ma è una trincea ormai eroica, solitaria. Quel mondo non c’è più: andato, finito. Non c’è il nulla, s’intende. C’è altro. A frotte, spesso in orari strani, incrocio migranti la cui integrazione da queste parti è sempre stata a misura di fame e di generosità dei miei vecchi: da manuale.

Mi colpiscono i bambini, le maglie dell’Inter, qualche inflessione dialettale promiscua e improbabile. Pagherei un botto per sapere come si chiama quella bimba down che si è affacciata dalla carrozzina guardandomi e tagliandomi le gambe di netto. Pagherei per sapere come si chiama, dove vive, con chi vive. Questa storia, queste storie – le loro – mi ridestano. Non chiedetemi perché; sarebbe un discorso troppo lungo.

Di quella eco – l’eco della storia, con i bagliori delle guerre e il tonfo e le grida dei barconi capovolti – qui arriva in modo chiaro e nitido la fame di vita. Una fame contagiosa, che potrebbe mettere in circolo altra vita. L’utopia, cioè, che la vita continui a scorrere, che i quartieri non siano abitati solo dal vento. Questa estate, con inciampi anche notevoli, Roberto Bolaño mi ha chiesto, affacciandosi alla finestra senza tempo delle nostre vite, della mia terra: «Cile, Cile. Come sei potuto cambiare tanto?, gli dicevo a volte, affacciato alla finestra aperta, guardando il bagliore di Santiago in lontananza. Che cosa ti hanno fatto? I cileni sono impazziti? Di chi è la colpa?».

Il monologo del prete Sebastián Urrutia Lacroix non è solo il vaneggiamento di un moribondo ma una confessione collettiva; non mette in evidenza solo un cinismo ributtante, ma lo colloca in un contesto rituale, diffuso, condiviso. Non colpisce a morte solo l’intellettuale che al Male presta il pensiero e la sua fascinazione, ma desta a conversione tutti. Nell’accezione della conversione colloco l’attraversamento dell’ombra: prendere parte e prendere parte dalla parte buona della via.

Per una volta si tratterebbe di rifiutarsi di abitare la casa di Maria Canales: quella casa in cui si possa vivere e festeggiare al piano superiore mentre nel seminterrato avvengono torture indicibili; metafora spietata della linea d’ombra, delle nostre vite. Ora che inizia settembre e che “Notturno Cileno” lo lascio alla polvere della mensola, continuo a chiedermi di quella bimba quale mai sarà l’iniziale del suo nome.

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