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È un test che crea distorsioni

La diffusione dei risultati dei test Invalsi somministrati agli alunni delle scuole italiane nei mesi scorsi dovrebbero interrogarci sul perché la scuola italiana utilizza questo strumento di rilevazione degli apprendimenti. Se è ragionevole riflettere sull’andamento del sistema scolastico, credo che l’operazione mastodontica condotta da Invalsi da una parte non raggiunga il fine e dall’altra produca distorsioni nel processo di insegnamento e nelle scelte di politiche sulla scuola.

I test standardizzati spesso inducono scuole e insegnanti a stressare l’insegnamento curvandolo verso il “teaching to test” (l’insegnare a rispondere correttamente a un test del tipo Invalsi), o appesantendo il valore del test che dovrebbe essere gestito in maniera più elastica, mentre spesso diviene il fine dell’azione didattica. Rilevazioni di questo tipo, sovraccaricate del loro valore, spinte dall’ossessione misuratoria fine a se stessa, rischiano di far perdere la bussola al sistema e agli insegnanti. Spesso non appare chiaro l’oggetto della misurazione e il suo fine se, a posteriori, come accaduto quest’anno, si decide ex post di impiegare i risultati delle rilevazioni Invalsi per distribuire pacchetti ingenti (ma occasionali, come quelli del Pnrr) di risorse pubbliche per contrastare la dispersione scolastica. In questo senso, il rapporto Invalsi di quest’anno continua a misurare (non si capisce sulla base di quali parametri e con quali obiettivi) la cosiddetta “dispersione scolastica implicita”.

Passare a misurare in maniera campionaria gli apprendimenti degli studenti potrebbe far risparmiare tempo e risorse, evitando distorsioni nel processo di insegnamento/apprendimento/valutazione e distorsioni pericolose nella rilevazione dei dati e nell’uso che se ne fa sui singoli e nelle politiche pubbliche di settore. La valutazione attraverso le prove standardizzate, di fatto, misura solo i risultati e non valuta i processi. Questo aspetto non è secondario se lo si contestualizza nel quadro dell’uso distorto che si fa dei dati rilevati: eclatante è il caso di Eduscopio, a cura della Fondazione Agnelli, un portale che annualmente elabora vere e proprie classifiche delle istituzioni scolastiche in una logica di competitività basata su una presunta “qualità/efficienza” derivante soprattutto dalle rilevazioni dell’Invalsi. È del tutto evidente che queste “classificazioni” non contemplano affatto la capacità delle scuole (e dell’intero sistema scolastico) di far crescere le studentesse e gli studenti nel proprio percorso di studi, dato, questo, essenziale soprattutto in quegli istituti che rappresentano dei veri e propri presidi delle periferie sociali del Paese.

Inoltre, molto spesso, i risultati elaborati da Invalsi finiscono col dimostrare realtà che paiono persino acquisite nel senso comune. Che gli apprendimenti di base in italiano, matematica e inglese siano più poveri tra regioni del Sud rispetto a quelle del Nord, che la dispersione sia maggiore al Sud o ancora che sia correlata a contesti socio-economici-culturali specifici e che si concentri più professionali che in altri ordini di scuola sfiora ormai l’ovvietà. E sebbene su questo punto la nostra regione sembrerebbe uscirne meglio di altre regioni meridionali (ma peggio di quasi tutto il centro nord, va da sé), non si capisce bene come i decisori politici possano utilizzare questo dato, se non c’è un’adeguata valutazione del contesto, delle stesse politiche antidispersione e di come operino.

Col Pnrr le scuole (alcune) hanno ricevuto ingenti risorse per attivare iniziative di contrasto alla dispersione, spesso registrando una naturale difficoltà sia nella gestione delle stesse (insieme alle altre che già si ricevono per scopi simili con altre iniziative comunitarie, nazionali e regionali), sia nella messa in opera delle attività quasi sempre rivolte agli stessi studenti. Ci si è interrogati se questa modalità di affrontare il tema della dispersione sia efficace, se si riproducono sempre gli stessi risultati? Sono profondamente convinto che bisognerebbe superare la logica degli interventi spot, occasionali e transitori, contemplare i fattori di contesto che impattano molto più delle singole iniziative slegate dalla realtà sociale ed economica vissuta dagli studenti e dalle loro famiglie. Estendere il tempo pieno nel primo ciclo di istruzione (scuola primaria e media), ampliare strutturalmente il tempo scuola in tutta la secondaria e curare tutte le altre condizioni di contesto a partire dagli ambienti vissuti quotidianamente dagli studenti, per arrivare all’organico, alla formazione e alla motivazione degli insegnanti (che passa anche per un adeguato ristoro economico) può essere più complesso e oneroso (non ne sono nemmeno così certo) rispetto al concedere finanziamenti spot ad alcuni istituti, ma migliorerebbe sicuramente la qualità del lavoro e risultati degli apprendimenti dei nostri ragazzi.

Ezio Falco è segretario Flc Cgil Bari

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