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Investimenti, così il turismo può crescere

Sono trascorsi due anni da quando, su queste stesse colonne, si sosteneva la necessità di un salto di qualità per il turismo pugliese. La tesi era semplice: il comparto non può vivere di solo mare ma deve rafforzare i servizi offerti agli ospiti, se davvero vuole contribuire allo sviluppo dell’economia locale e scongiurare il rischio di essere superato da quelli di altre regioni meno affascinanti dal punto di vista naturalistico ma dotate di una cultura dell’ospitalità più solida. Dal 2022 a oggi, però, poco sembra essere cambiato: la Puglia è e resta una delle mete preferite dai turisti, a cominciare dal sottoscritto, ma quello “scatto in avanti” ancora non si è visto. Emblematica è quella frase – “Qui ci pensa il mare” – con la quale il sindaco di Brindisi ha risposto a chi gli contestava i pochi eventi organizzati in città nel corso dell’estate.

La questione può essere analizzata sotto molteplici aspetti, primo tra tutti quello del lavoro. Secondo i dati recentemente diffusi dall’Osservatorio Aforisma, in Puglia ci sono 13.391 aziende turistiche, pari a poco meno del 7% del totale nazionale, e i dipendenti sono 84mila, cioè il 6% del dato italiano, molti dei quali stagionali. Per questi ultimi la retribuzione media annua è di 9.211 euro, mentre nelle altre regioni si aggira intorno ai 12.800. Impietoso il confronto con Trentino-Alto Adige e Lombardia, dove la paga media tocca rispettivamente 18.349 e 15.549 euro l’anno.

Questo succede perché il comparto è ancora caratterizzato da una fortissima stagionalità legata al mare: molte strutture lavorano soltanto da giugno a settembre, dopodiché la loro attività rallenta fino alla totale sospensione. Nel complesso, l’ambiente del lavoro è problematico, instabile e con una copertura temporale ridotta. Ovviamente la bassa produttività, unita a un lavoro povero e precario se non addirittura irregolare, impedisce al turismo di incidere in misura “pesante” sulla produzione del pil. Il settore rappresenta sì una voce importante dell’economia locale, ma a livello strategico non è in grado di offrire spazi considerevoli. Anche perché presenta molte insidie soprattutto in occasione di crisi economiche globali, pandemie e cali della domanda. Due esempi: il crollo dei visitatori legato prima al Covid, con i lockdown che hanno paralizzato mezzo mondo, e poi alla guerra russo-ucraina, che ha fatto mancare alla Puglia un consistente numero di visitatori provenienti dall’Est europeo. Insomma, sono troppi limiti impediscono al turismo pugliese di diventare il settore di punto dell’economia locale.

Che cosa fare, dunque? Abbandonare il turismo, in un momento in cui la Puglia è la meta più gettonata in Italia, per investire solo ed esclusivamente su industria e manifatturiero, settori che rappresentano da sempre il motore della crescita? Certo che no. Sono due le strade da percorrere. La prima è curare la regione da quella “malattia della spiaggia” che vincola il lavoro di un intero settore al mare e, quindi, a quella stagionalità che non consente di creare ricchezza in modo stabile e duraturo. E, soprattutto, è indispensabile investire nella qualità dei servizi resa agli ospiti, in modo tale da intercettare un turismo altospendente (e non “straccione”, come avviene soprattutto in Salento) e incrementare così la produttività delle aziende. Gli strumenti ci sono: il Fondo rotativo delle imprese turistiche garantisce finanziamenti a tasso agevolato per gli investimenti tra mezzo milione e 10 milioni di euro, il Superbonus turismo 80% assicura un credito d’imposta fino a 100mila euro, i mini-Pia offrono agevolazioni alle aziende che ampliano, ammodernano o avviano il restyling delle strutture. In altre parole, bisogna investire nei servizi. Altrimenti il turismo rappresenterà per la Puglia un’occasione mancata.

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