Home News Medici e infermieri, in Puglia -18,41% rispetto al Veneto

Medici e infermieri, in Puglia -18,41% rispetto al Veneto

Non c’è storia: la sanità pugliese e quella meridionale in generale non possono competere con l’efficienza di regioni come il Veneto e l’Emilia Romagna, punto di riferimento per i parametri delle performance sanitarie avendo un numero di abitanti più o meno pari a quello della Puglia. Il motivo? Presto detto: la differenza di personale (in termini numerici) impiegato nei servizi sanitari regionali. I dati, analizzati per quanto riguarda il personale in servizio, sono relativi al 2020 e certificati da Agenas, organo tecnico-scientifico del servizio sanitario nazionale che svolge attività di ricerca e di supporto per il Ministro della salute, delle Regioni e delle Province autonome di Trento e Bolzano.

Per la Puglia si tratta di 6.346 fra medici e odontoiatri, mentre gli infermieri sono 15.403 in totale. In Veneto, invece, contano su 7.711 medici e 25.715 infermieri. Ben il 18 per cento in meno di medici e 41 per cento in meno di infermieri, in Puglia. In Emilia Romagna 9.098 medici in servizio, sempre nel 2020 (i dati dalla pandemia sono ancora più penalizzanti per il Sud) e 27.631 infermieri. Nel confronto con la Puglia si tratta di un meno 31 per cento di medici e di un meno 45 per cento di infermieri. Basta questo confronto per spiegare molte inefficienze: prima fra tutte quella relativa alle liste d’attesa.

Oltre al personale in servizio negli ospedali deve essere preso in esame quello in forze sul territorio: medici di medicina generale (meglio noti come medici di famiglia) e i pediatri di libera scelta. In un biennio (2019-2021) il dato costante è il decremento dei professionisti attivi causa pensionamenti e difficoltà di sostituzione perché le scuole di specializzazione non abilitano tanti specialisti e medici di medicina generale quanti ne servono al sistema sanitario regionale.

I medici di medicina generale erano 3.260 nel 2019, 3.247 nel 2020, 3.144 nel 2021. I pediatri di libera scelta 559 nel 2019, 555 nel 2020, 538 nel 2021. Una “erosione” lenta e ineluttabile, almeno per le possibilità attuali di copertura dei posti scoperti, definite zone carenti nel caso dei medici di medicina generale.

Come risolvono i sistemi sanitari regionali la mancanza di questi medici sul territorio? Derogando al limite di numero di assistiti per medico. «Secondo gli accordi collettivi nazionali, – spiega Agenas nello studio che analizza la situazione del personale nel servizio pubblico – un medico di medicina generale può assistere fino a 1.500 pazienti. Alcune regioni, per ovviare alla carenza di tale figura professionale, hanno aumentato questo limite. Tuttavia, la media nazionale è di 1.224 con il valore è più alto al Nord (1.326), rispetto al Centro (1.159) e al Sud (1.102)». In realtà la media, come spesso accade, non dà il polso della situazione perché i cosiddetti massimalisti (i medici con 1.500 assistiti) sforano il tetto, mentre i colleghi più giovani arrotondano lo stipendio con turni in guardia medica.

«È evidente – scrive Agenas – che le medie riportate rappresentano la forte disomogeneità di distribuzione degli assistiti per medico esistente fra le aree metropolitane e le aree a bassa densità di popolazione come le aree rurali, le comunità montane e le isole».

Il nodo sta in primis nelle scuole di specializzazione, ma anche nelle modalità di calcolo del vincolo di assunzioni. Se è vero che il decreto legislativo 90/2014 ha eliminato (dal 2014) il vincolo alle assunzioni relativo alle percentuali di unità lavorative cessate nell’anno precedente mantenendo il solo criterio basato sui risparmi di spesa legati alla cessazioni di personale (peraltro con riferimento al solo personale di ruolo) avvenute nell’anno precedente; è altrettanto vero che pur potendo sostituire il cento per cento del personale che va in quiescenza, la possibilità non dà le risposte adeguate essendo il dato già deficitario in partenza perché il blocco delle assunzioni al parametro della spesa per il personale relativamente al 2014 ha spogliato corsie e ambulatori delle figure necessarie al funzionamento delle strutture.

Sulle scuole di specializzazione va detto che il Covid ha dato una scossa elettrica facendo comprendere che bisogna investire maggiormente nella formazione post laurea per acquisire un titolo abilitante all’esercizio della professione medica specialistica. Tuttavia va considerato che per il 2022/2023 c’è un calo del 16 per cento rispetto al precedente anno accademico. Comunque rispetto alle vacche molto magre del passato, una virata salutare c’è stata, ma gli effetti non si faranno sentire prima del 2027 (sono poche le branche specialistiche con tre anni di specializzazione, la maggior parte viaggia su una formazione che dura dal 4 ai 5 anni) e nel frattempo i cittadini continueranno a pagare il prezzo di una programmazione per troppo tempo completamente miope.

«Negli ultimi anni – dice Agenas – il numero delle borse per la formazione specialistica finanziate dallo Stato è stato in costante crescita, passando da cinquemila del 2015 a 17.400 nell’anno accademico 2021/2022 poi ridotti a 14.700 nell’anno accademico 2022-2023». Anche le borse per la formazione dei medici di medicina generale sono andate ad aumentare. Per Agenas: «Va quindi nella direzione giusta il finanziamento, con fondi stanziati per la Missione 6 del PNRR, di 900 borse per la formazione dei medici di medicina generale sin da quest’anno per tre anni di fila, da sommarsi ai finanziamenti ordinari. Per il triennio formativo 2022-2024, le borse passano da 1.879 a un totale di 2.779».

Stando ad Agenas « il personale sanitario italiano rapportato alla popolazione è caratterizzato da un numero complessivo di medici congruo e da un numero di infermieri insufficiente». Tuttavia l’Agenzia segnala la carenza di medici in alcune specializzazioni. La principale, sempre per Agenas, «riguarda i medici di medicina generale che sebbene rapportati alla popolazione siano apparentemente sufficienti, risultano inferiori rispetto alle medie EU e non omogeneamente distribuiti sul territorio, risultando carenti nelle aree a bassa densità abitativa o caratterizzate da condizioni orografiche o geografiche disagiate».

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