Home Editoriali Cara Meloni l’identità non è un alibi

Cara Meloni l’identità non è un alibi

In questi due anni di governo il presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, ha risposto, quasi sempre, punto su punto a tutte le critiche che le hanno mosso le opposizioni, i sindacati e alcuni dei giornali più critici nei suoi confronti. Anzi, in molte di queste circostanze, quando nel mirino è finito il suo operato e quello della maggioranza, c’è anche da sottolineare come la premier abbia replicato scegliendo di adottare un linguaggio e un comportamento che non esasperasse i toni della polemica politica.

Derubricare e passare avanti è stato per certi aspetti un denominatore comune della condotta meloniana a Palazzo Chigi. Eppure, nonostante ciò e considerate anche la lunga esperienza parlamentare e la frequentazione dei palazzi, c’è uno specifico tema che Meloni sembra proprio non riuscire a mandar giù con altrettanta disinvoltura.

Infatti, quando le si contesta la fragilità o la poca consistenza della classe dirigente di Fratelli d’Italia, a tutti i livelli, dai Comuni ai Ministeri, a Meloni scatta un riflesso condizionato di auto-difesa a spada tratta. Guai a chi si azzarda a parlarne male, siano spediti all’inferno, nel quinto girone che accoglie gli iracondi e gli accidiosi tutti coloro che osano metterne in dubbio le competenze, le qualità, l’integrità e la adeguatezza rispetto ai nuovi ruoli di responsabilità che il voto popolare del 25 settembre 2022 gli ha legittimamente assegnato. Solo qualche giorno fa, per citare uno degli ultimi interventi, è stato Claudio Cerasa, direttore del “Foglio”, a scrivere che “oltre Colle Oppio c’è di più” e, nei fatti, invogliare Giorgia Meloni a liberarsi in fretta dell’assillo del complottismo ogni qualvolta qualche esponente della classe dirigente del partito casca a piè pari in qualche inciampo clamoroso.

Qui non serve neanche, come fa del resto lo stesso Cerasa, dilungarsi a spulciare e ricostruire con meticolosità l’elenco dei passi falsi compiuti dai ministri, dai sottosegretari e dai parlamentari vari che hanno creato piccoli o grandi imbarazzi proprio alla Meloni per delle condotte o delle dichiarazioni, in alcuni casi va detto a dir poco leggere, che sono state degli inneschi perfetti per accendere la strumentalizzazione politica. Adesso, è umanamente comprensibile che il presidente del Consiglio reagisca a testa bassa a questa accusa e pubblicamente rispedisca stizzita al mittente l’idea la sua miglior creatura politica, nata in un freddo pomeriggio di dicembre del 2012 nello studio del notaio romano Camillo Ungari Trasatti, possa essere strapazzata impunemente, in particolare dopo la lunga traversata nel deserto che portato quella classe dirigente a conquistare il potere con il sudore e la fatica. La stagione dell’isolamento politico-culturale, della nicchia che diventava anche modello valoriale di cui andare fieri, si è chiusa con il varo del governo Meloni e non può essere ancora oggi una “gabbia” dove far continuare a vivere in cattività quella diversità identitaria. L’esercizio costituzionale del potere in uno con l’onere del governo di un Paese non possono essere esercitati compiutamente senza scrollarsi di dosso questa paura di tradire un passato, di barattare valori e principi in cambio della governabilità e della stabilità, di ripetere gli stessi errori fatti in passato da chi ci ha preceduti in quel ruolo.

Anche per questo diffuso timore di non perdere e disperdere la propria diversità rispetto agli altri, Giorgia Meloni risponde piccata ogni qualvolta c’è qualcuno che tenta di mettere in discussione la “sua” classe dirigente, dove è anche giusto sottolineare ci sono molti esponenti – come scrive anche Cerasa nel suo editoriale – “capaci, responsabili e apprezzati trasversalmente”: ministri come Guido Crosetto, Raffaele Fitto o Carlo Nordio, giusto per fare qualche nome, oppure deputati come Tommaso Foti, capogruppo di Fratelli d’Italia alla Camera, Walter Rizzetto e Augusta Montaruli. Solo che, in questa difesa a prescindere, Giorgia Meloni commette lo stesso errore che George Lakoff, per molti anni professore di Linguistica cognitiva all’Università di Berkely, riproverà nel suo libro “Non pensare all’elefante” alla classe dirigente del partito democratico americano: la negazione di un frame, cioè di una specifica narrazione, non solo attiva quel medesimo frame, ma lo rafforza tanto più quanto si continua ad attivarlo.

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